Ci sono libri dimenticati, coperti da anni di polvere e nascosti dall’andirivieni del caso, oscurati dalle falde dell’abito lungo della sfortuna più che dal martirio della critica. Ci sono uomini e ci sono scrittori dimenticati, sepolti nella fossa comune della letteratura indigesta, quella putrida, quella sanguinosa e volgare, quella cruda e quella in fiamme. O semplicemente la letteratura senza colpe se non quella di esser stata troppo sincera, troppo candida, eterea. Talmente sottile da non essere notata.

Il Primo Dio è uno di quei libri, Emanuel Carnevali uno di quegli uomini.

Storia particolare la sua, troppo lunga ed assurda per essere raccontata in poche righe e troppo sensazionale per subire la deturpazione della sintesi. Meno sensazionale e più breve potrà essere invece il mio commento, la storia di come mi sia finito tra le mani il suo volume e di come e perché io ne sia rimasto stregato. Il primo incontro tra me e il nome Carnevali non fu ovviamente in un plasticato libro di testo di letteratura italiana, canale ormai affidabile quanto il tg4, (che Asor Rosa non me ne voglia) bensì in una canzone dei Massimo Volume, storica band bolognese. Il pezzo era intitolato “Il Primo Dio” ed era per l’appunto dedicato a Emanuel Carnevali. Spinto dalla curiosità ho cominciato a ricercare e a leggere su di lui, procurandomi Il Bianco Inizio e Il Primo Dio (Tales Of an Hurried Man e Fireflies sono purtroppo particolarmente difficili da trovare).
Il suo stile colpisce profondamente, entra senza bussare, ti pervade, ti atrofizza. Non lascia nulla all’immaginazione proprio per il fatto che d’immaginario non c’è niente. C’è prosa, c’è poesia, c’è saggistica critica, c’è giornalismo letterario, c’è diario e c’è corrispondenza epistolare. E’ storia che si racconta mentre viene scritta, storia di un uomo, di un poeta, di un malato, di un’America, e di un Dio. Il Primo. La sua vita lascia l’Italia per attraversare l’oceano, e si trova ad inseguire un’America veloce ed incomprensibile, l’America anni ’30 che sembrava non voler più rallentare. Emanuel racconta quest’America con penna italiana, con occhi italiani. Scrive spesso in inglese, un inglese sporco, appreso dai cartelloni pubblicitari e dalle conversazioni con gli altri morti di fame come lui, a caccia di vita in un sogno americano fatto di lavori impensabili e stanze in decomposizione. Ne nasce un inglese estremamente sgrammaticato, metropolitano, dal gusto italiano ma non italianizzato. Attribuisce colore all’impeto americano, al flow di una lingua fatta per cantare, fatta per voci piene e profonde. Una lingua duttile e musicale quella americana, senza dubbio, ma spesso scontata nel suo ripetersi in frasi fatte e assonanze fin troppo facili da assemblare. Carnevali riesce invece a sorprendere, con il diamante grezzo di una struttura europea di rimembranza francese, livellata da scelte semantiche mediterranee e poi infine amalgamata in un linguaggio che non si direbbe d’aver mai sentito sebbene suoni estremamente familiare. E’ un codice personale quello di Carnevali, ed è comprensibile perché parte di tutti noi, è da decriptare con il dolore, da osservare nell’ottica dell’incomunicabilità. Questo grande poeta ci regala un sussulto di amor di patria, le sue opere dovrebbero essere motivo di orgoglio nazionale. I suoi testi in inglese dovrebbero essere studiati in letteratura italiana, per capire come si possa linguisticamente esportare il nostro colore mediterraneo in altre lingue così differenti. Invece no, su di lui metri di polvere e silenzio. E noi a venerare il Pound della situazione (che, per inciso era tra i più grandi ammiratori del giovane Carnevali), senza accorgerci che il processo inverso è ben più arduo e più meritevole.
Dicono alcuni saggi critici che Emanuel sia il Rimbaud italiano, non lo trovo corretto, lui è il Carnevali italo-americano, un tassello nell’agitazione dell’avanguardia d’America.

 

Gabriele Stera