Sant’Agata del Bianco. La casa del professore
A metà luglio, come ogni anno, veniva in villeggiatura, al paese, un grande intellettuale. Era il ‘professore’ Saverio, nato e cresciuto a Sant’Agata a botte di terra, manicola e pane. Ogni stagione tornava per accertarsi delle sue origini (contadine) che finivano qui dove erano cominciate. Nella terra. Per certo, lui, Dio salvi mia madre e mio padre, doveva essere parte di quella categoria di uomini che pur vivendo all’ariola della bell’Italia, si era sempre e solo considerato cittadino del sud. Il suo sud. Quello stesso sud che ti fa piangere quando ci nasci e ti piange invece quando gli muori. Faceva scuola pure ai ciucci perché con il tempo gli rendesse le capizze colte. «La Calabria – diceva, – povero io e voi, altro non è rimasta che un luogo di culto incolto e pure fesso. Non ha più nemmeno un sepolcro per riposare. Ti partorisce e non ti sa sfamare. Ti cresce e non ti sa tenere. Ma te la tieni sempre dentro al cuore come un destino che ti prende e non lo sai lasciare». Ascoltarlo, il professore, era come sentir parlare la casa di mio padre. Bella e dannata. Era come sentire gridare le doglie di mia madre quando mi ha partorito. Con dolori e fatica. E mi rendevo conto, con scosse alla coscienza, che di intelletti contadini con il dono della ‘restanza’ ha bisogno questo ‘maledetto’ sud, non di intellettuali strafottenti con la sola prosopopea dell’erranza, che quaggiù oziano lenti. E gli uomini nati dal senso dei luoghi con il senso dell’appartenenza come il vecchio Saverio, sono il solo concime di cui la terra – questa terra – ha bisogno. Il sud va dissodato, palmo a palmo, con fatica e duro lavoro, perché non colga più nessuno, né padri né figli, la maledizione che con il sud nasce e con lo stesso sud, muore. Aveva scritto libri pari al doppio dei miei anni. E malediceva il sud benedicendo la sua casa. Una sorta di rito contro la maledizione che noi meridionali ci portiamo addosso da una vita. Una terra bestemmiata da Dio! «Quaggiù, – diceva – i cieli non sono altro che pezzi d’azzurro tamarri, non esistono i numeri primi e gli uomini vengono chiamati ‘ultimi’. Solo ultimi. Perché lavorano con le mani, si bagnano con il sole e mentre grondano pregano e mentre pregano vivono e poi ridono». Eppure tornava. «Qui c’è aria di casa mia» sospirava assaporando l’aria che sapeva di basilico, menta e rosmarino. La sua lotta non era la guerra diretta contro il malaffare. Si batteva per la cultura il professore Saverio: «Non ti sfama la cultura – diceva, – ma gli uomini colti fanno nuova la terra. La fanno bella, saporita come il pane. L’ignoranza che c’è però, se non verrà istruita in tempo, la manderà al macello presto e, poi si venderà le sue carni. E noi moriremo. Soli. Nella solitudine del tempo che resta». L’anno a venire, il professore Saverio, al paese, non era più tornato. All’ariola della bell’Italia, l’avevano levato con i piedi avanti, in aprile. Uno di quei mesi fatti di trenta e non trentuno. E quaggiù a Sant’Agata, nella tristezza dell’estate nuova che veniva, non restava altro che il ricordo delle sue cose e della sua casa. Casa Saverio Strati.
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