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“ ‘Ndrangheta s.r.l. - Una Società dai Reati Legalizzati”


 

Prefazione


 

La scienza criminologica, pur di recente individuazione, rispetto all’interrogazione dell’uomo sulle strutture che vengono ad essere create nel suo naturale ritrovarsi in comunità, ha un oggetto proprio comune con la filosofia morale, con la filosofia del diritto, con la giurisprudenza.

E’ perciò possibile ritrovare considerazioni e massime veritiere, anche molto risalenti nel tempo, vere ed utili, seppure non costruite con un metodo scientifico di ordinata rilevazione di uniformità, compresenti e di individuazione – laddove possibile – di relazioni di causalità: questa particolare proprietà della disciplina criminologica ci è parsa presente nel lavoro primo della dr.essa Giandinoto, dedicato al fenomeno criminolale organizzato originario della Calabria, noto con il nome di ‘Ndrangheta.

Con ciò, vogliamo riferirci non alla necessaria disanima – sia pure sintetica - delle vicende storiche postunitarie nella regione, ma all’analisi delle prime decisioni giudiziarie che la Corte d’Assise di Reggio Calabria ebbe a pronunciare, sul finire dell’ottocento e riferito dall’Autrice.

Si tratta, a nostro avviso, di un pregio di quest’opera, che mostra la seria dedizione alla specifica ricerca, e che siamo lieti di segnalare ai lettori.

Desideriamo anche notare che le tristi vicende che conseguono al radicarsi del crimine di stampo mafioso hanno attirato oggi l’attenzione anche sulla più silenziosa delle tipologie mafiose, quale è certamente la ‘Ndrangheta: è perciò da credere nell’utilità di questo denso saggio, che, correndo di mano in mano, farà crescere la civile consapevolezza della gravità della situazione.

Anche questo sentimento di ethos pubblico ci è apparso attraversare le righe dell’Autrice, e con queste parole, unendovi un augurio di successo, desideriamo dargliene pubblica testimonianza.

 

Riccardo Turrini Vita*


 

* Vicepresidente dell’Organizzazione europea della probation, direttore generale dell’esecuzione penale esterna (Ministero della Giustizia).


 

Introduzione


 

Come sono arrivata a questo periglioso lido? In un’epoca in cui non si fa altro che parlare di mafia in tutte le sue specie ed in tutte le sue salse, soprattutto in questi ultimissimi mesi dell’anno, in cui sembra che diaboliche coincidenze abbiano fatto scatenare ogni forza bruta di queste tralaticie oramai per il nostro Paese organizzazioni, mi è parso quantomeno attuale ed interessante approfondire il tema, naturalmente su un unico versante geografico, data la pluralità del fenomeno.

Ma perché proprio la Calabria?

Sono figlia di siciliani, nata e cresciuta a Roma, città dove ancora piacevolmente vivo: una tesi sulla mafia poteva essere forse la più confacente alla mia storia personale ed alle mie origini.

Ma era anche l’esito più ovvio e banale che potessi mai perseguire, e a me non è mai piaciuto cercare la strada più facile - la complicazione, l’enigma e la tortuosità mi hanno sempre misteriosamente affascinato – per cui ho pensato ad una forma di malavita geograficamente vicina e culturalmente affine, cugina di quella isolana, con essa condividente la morale basilare dei rapporti umani e familiari.

Due anni prima dell’inizio della “lavorazione” del mio elaborato, avevo letto un famoso libro di cronaca nera sui delitti irrisolti del passato, frutto della paziente dedizione di un bravo scrittore di gialli, che con quel testo ci voleva raccontare l’occulta e poco conosciuta storia di una ‘Ndrangheta assassina, animalesca e così disumana, da far paura anche al più esperto killer.

Quella era l’altra faccia della mafia calabrese che nessuno aveva quasi mai fino ad allora (e non si trattava di molti anni fa) visto nella sua reale apparenza; spesso irrisa, ridimensionata, rimpicciolita, circoscritta.

Eppure, questa è la vera Onorata Società di antica memoria, che la maggioranza ignora, e che credevo opportuno far “assaporare” al lettore, per renderlo stavolta consapevole di una realtà subdola e allarmante.

Questo è stato uno dei contributi alla nascita dell’idea di trattare di “’Ndrangheta e le sue sorelle…”.

Nel corso del testo, il lettore potrà pertanto rintracciare innanzitutto un percorso storico-sociale svolto dall’organizzazione sin dal suo nascere fino ai giorni più prossimi alla nostra contemporaneità; secondariamente, un quadro spero sufficientemente composito della struttura, delle guerre all’ultimo fuoco, delle attività criminali, e dei risvolti prima nazionali, poi internazionali, dell’associazione malandrinesca; infine, un più tecnico ed ostico sommario sulla normativa antimafia applicabile a qualsiasi forma di delinquenza organizzata, quindi, anche alla ‘Ndrangheta.

Non so quanto possa essere valida la mia opera e degno il mio intento, ma momentaneamente, in maniera molto onesta e profondamente spassionata,

vivamente nutro in un piccolo canto della mia anima la bella speranza che la coscienza conduca verso la via della lotta, affinché finalmente la sensibilità sociale porti a soffocare quello squallido egoismo nostra malattia mortale dei tempi moderni.


 

 

Capitolo primo

Sviluppi storici e subcultura criminale


 

Le origini di un nome


 

Ndrangheta, detta anche mafia calabrese.

E’ nel 1884, che, per la prima volta, in un documento ufficiale, appare questa parola, a designare l’associazione di malavita nata sulla punta dello stivale, addirittura in una relazione al Ministero dell’Interno inviata dall’allora Prefetto di Reggio Calabria, Tamajo, in quel di Marzo.

Prima di ogni storia della ‘Ndrangheta, e’ imprescindibile risolvere una curiosità legata a qualsiasi fenomeno umano: l’etimologia del termine.

Da dove viene questa misteriosa parola? Quando si e’ iniziato ad usarla?

Tale diatriba intellettuale ha visto confrontarsi, e spesso scontrarsi, i più disparati generi di studiosi: filologi, sociologi, letterati, scrittori, storici e cultori del folklore.

Non molto tempo fa, Paolo Martino1 ha reperito la derivazione di tale denominazione dal greco classico, quello parlato nella zona grecanica che fa capo a Bova, secondo la suggestiva tesi del Rohlfs.

La parola trae origine da molto diffuso nel V secolo a.C., soprattutto tra le fonti letterarie ed epigrafiche, e da tradurre “coraggio, valore, virtù, rettitudine”, o meglio, “valore individuale, capacità personale”, di carattere spiccatamente militare.

In realtà, la forma fonetica più corretta è ‘Ndranghita, poi mutatasi in ‘Ndranghitu.

Dunque, inizialmente il sostantivo avrebbe avuto una connotazione positiva, lasciando “trasparire un inconfessato sentimento di rispetto, se non addirittura un esplicito senso di ammirazione, nei riguardi dell’onorata società e dell’uomo d’onore”.

Successivamente ha subìto quello che lo stesso Martino ha definito “processo di criminalizzazione”, determinante l’insorgere di “connotazioni peggiorative”.

Saverio Di Bella2, invece, ritiene che ‘Ndranghita non avrebbe alcuna nobile origine, ma, più banalmente, sarebbe la versione onomatopeica dell’accompagnamento alla chitarra nella danza della tarantella: e ‘ndrangheta e ‘ndra. ”Gli ‘ndranghetisti sono cioè raffigurati come uomini ballerini, privi di sostanza, quasi buffoni, rispetto ai vecchi uomini d’onore, che si sentono umiliati, se assimilati a costoro”.


 

Ndrangheta agli albori


 

La mafia si era già presentata in tutta la sua pervasività nella Trinacria, e i governi post-unitari dovettero affrontare subito il neoproblema.

Il primo decisivo intervento lo ordinò, all’epoca del Governo Minghetti, il Ministro dell’Interno Cantelli, a cavallo tra il 1874 e il 1878.

In quegli anni, tanti mafiosi vennero arrestati dalla polizia, e condannati al carcere o al confino, spediti in sperdute isole di fronte alla Sicilia, Ustica e Pantelleria.

Un gruppo di “banditi”, però, fu fatto approdare al Continente italiano, alla zona circostante Bova e San Luca, nella Calabria Jonica meridionale, luogo evidentemente considerato opportuno per il domicilio coatto.

A detta di Sharo Gambino3, perciò, gli anni intermedi tra il 1874 ed il 1878, segnano la nascita della malavita calabrese, inizio anticipato dallo studioso francese Nello Zagnoli al 1860, poiché a questa data risale “il documento più antico” sinora da lui trovato.

Tale documento narrerebbe di un processo celebrato a Reggio, dibattuto fra un uomo che reclamava un oggetto di sua proprietà, ed uno sconosciuto reticente interlocutore; l’attore ad un certo momento esclama: “Allora, tu vuoi fare il camorrista?”.

Il Gambino, pur non ritenendo che una sola parola possa essere sufficiente a creare una realtà piuttosto complessa, si sente di condividere la scoperta filologica di Martino.

Gli uomini d’onore siciliani mandati al confino in Calabria si erano dovuti inserire in un tessuto sociale che era quanto di più adatto poteva trovarsi, per esportarvi leggi, usi e costumi dell’onorata società. In quelle zone c’erano sempre contadini, miseri artigiani, povera gente destinata a vivere nel più avvilente abbandono, in condizioni socio-economiche miserevoli.

Su tutta questa popolazione avevano regnato, adottando i peggiori sistemi feudali, i Ruffo, i Carafa, i Gambacorta, i Serra, la cui unica funzione era stata quella di sfruttare parassitariamente le terre, senza alcun beneficio per i sudditi.

In tale ambiente, la ‘Ndrangheta prese a crescere vigorosa.

Come ha ben intuito Corrado Alvaro4, essa simboleggiava per la gente umile l’occasione della vita da non perdere, la possibilità di una rivalsa. Ciò scrisse in un capitolo di “Un treno nel Sud”, intitolato “L’onorata società”.

In effetti, all’origine la mafia rappresentò una forza di recupero sociale, pur se dedita a taglieggiare ed ad angariare agricoltori, pastori e piccoli proprietari, attraverso l’imposizione di tasse e distruzione di raccolti, bruciando pagliai e sgarrettando animali da lavoro se le richieste non venivano accolte.

Sta di fatto, che in virtù della personalità, e fattosi forte della occulta protezione donatagli dal suo legame di fratellanza, il mafioso si sentiva forte, temuto e rispettato; e tale era il suo riscatto nei confronti di un contesto che prima lo aveva rifiutato, respinto.

Gli stessi maggiorenti del paese, in maggior grado nel periodo giolittiano, definito da Gaetano Salvemini periodo del “ministro della malavita”, ora lo guardavano con occhio diverso, anche perché interessati a servirsi di lui per riceverne protezione, mentre prendevano le sue parti con la loro autorità ed il loro prestigio.

Niente più disprezzo, ma stima, consigliata dalla paura. Paura, che per il “galantuomo” spesso equivaleva ad una porta d’ingresso, a ricchezza conseguita, nell’ambiente borghese e piccolo borghese, o fors’anche una poltrona di capo dell’amministrazione, se riusciva a conquistarsi amicizie politiche di un certo peso.

E’ stata citata più di una volta l’”onorata società”, come l’espressione di gran lunga adoperata per riferirsi alla mafia calabra.

L’honorable société, délicieux euphémisme”, recitava con una punta d’ironia e di malizia Falcionelli5.

Ma qui il sarcasmo non è appropriato, dato che la perifrasi non viene usata a caso, bensì corrisponde perfettamente ad una mentalità radicata già a quel tempo.

Si sta parlando di una vera e propria società d’onore, valore su cui poggiava la sovrastruttura culturale e il modo di pensare di una civiltà contadina, quale quella della Calabria all’indomani dell’unità d’Italia.

Luigi Malafarina6 sostiene che nella provincia reggina, ancora oggi, viene anteposto al termine mafia l’altro di “fibbia”, mentre gli associati vengono conseguentemente appellati “affibbiati”, e Gambino7 è dello stesso parere.

L’onore, dunque: un qualcosa di forte, molto intenso, sentito permanentemente nel sud come un bene da tutelare vita natural durante. C’è l’onore della famiglia, l’onore della propria madre, sorella, donna, amante o moglie che sia, da vendicare se viene violato, e la reputazione da difendere.

Erano i contadini a parlarne, di rispettabilità da guadagnarsi, anche reagendo agli affronti, dai più piccoli ai più incancellabili, se non col sangue di un altro uomo.

E siffatto principio avrebbero preso a prestito gli ‘ndranghetisti, costruendovi sopra la loro creazione.

La fibbia era l’associazione locale, che molto spesso era designata anche “famiglia”, parola seguita dal nome del paese di origine.

Quindi,”’Ndrangheta” stava ad individuare l’intera associazione, e “’ndrina”, con parola anch’essa di sapore greco, le realtà locali. Essa si traduce con “uomo diritto, che non piega mai la schiena”.

La ‘ndrina è un’organizzazione autonoma, strutturata al suo interno secondo il principio della gerarchia, e per l’appunto corrispondente con un ambito comunale.

Anche “cosca” ( dalla foglia del carciofo) accenna ad una organizzazione locale.

Gli accomunati ricevevano dall’associazione prestigio, autorità, protezione, assistenza, audacia, impunità”.

Così, in modo sintetico e molto efficace, si pronunciavano i giudici della Corte di Appello delle Calabrie, quando nel 1902 misero sotto processo la ‘ndrangheta operante nei comuni di Galatro, Anoja, Maropati e Cinquefrondi.

Il gruppo, continuano i magistrati, “fornisce, oltre la reciproca tutela, la solidarietà di tra i soci pel pronto accorrere ai rispettivi bisogni.

Da tale aiuto ciascuno trasse la sua forza e la sua audacia per commettere quel reato più consentaneo al suo stato sociale, e così il pastore si sentiva audace nei pascoli abusivi, il contadino nei furti campestri e nei danneggiamenti; ciascuno fu più forte nell’esercitare la delinquenza, in quei confini che si riferivano al proprio stato”.

E’ una descrizione molto acuta e capace di cogliere l’essenza profonda della mafia di quei primi anni, per come la vivevano gli stessi membri.

Prima di tutto, un profondo concetto dell’appartenenza. La salvaguardia di cui parlano i togati della Corte di Appello rappresenta sicuramente una componente caratteristica dell’organizzazione, assolutamente aderente ad una esigenza largamente sentita fra le popolazioni meridionali dopo l’unità.

A contraddistinguere per lungo tempo la storia della Regione è proprio questa insicurezza, foriera di un’istanza di compensazione rassicurante.

Esplose, in questi primi anni postunitari, stavolta in una forma recrudescente, l’ormai antica e conosciuta esperienza del brigantaggio, fatto che favorisce il processo di accelerazione verso l’adesione alla ‘Ndrangheta.

Nessuno è al sicuro: i possidenti, minacciati nei loro averi, oltre che nella stessa vita; i paesi, in molti dei quali scorrazzano briganti e truppe militari, le quali, per aver dato rifugio e ospitalità agli stessi, li mettono a ferro e fuoco; ed infine i contadini, sballottati tra due frange opposte, i predoni ed i militari.

Essi li considerano indistintamente favoreggiatori e manutengoli, come i familiari dei grassatori, che, per il solo fatto di portare lo stesso cognome, vengono tacciati di complicità e connivenza con loro.

Ma non c’era solo questo: qualcosa di più insidioso allarmava i popolani, costringendoli a muoversi verso l’entroterra, e a chiudersi fra aspre montagne e colline.

Le improvvise scorrerie brigantesche sulle coste calabresi rendevano piuttosto insicuri i lidi , e provocarono tale ondata di esodo interno.

E indirettamente, una disposizione geografica notevolmente propizia alla chiusura e alla incomunicabilità reciproca fra i villaggi aspromontani.

La scelta dei luoghi era sovente dettata dalle consuete paure e preoccupazioni, e non soltanto dalla vicinanza di un fiume, o dalla fertilità della terra, o ancora dalla possibilità di svolgervi attività agricole.

Incombente era inoltre il sentimento dell’incertezza del nascere e sopravvivere; nella prima Italia unitaria, la mortalità infantile era infatti eccezionalmente elevata, come il numero degli infanticidi.

Gli spostamenti e i tragitti da un paese all’altro, come si è detto, grandemente disagevoli, infidi e pericolosi: Galanti ricorda quanto fosse praticata l’usanza di fare testamento prima di un viaggio.

All’inizio dell’Ottocento, proprio in una fase di acuto brigantaggio, ”le strade, specie quelle per le Calabrie, erano impraticabili, senza una forte scorta armata”.

Svariate testimonianze, con drammatico pathos, ci presentano un quadro straziante dell’atmosfera nella quale trascinavano la loro esistenza le misere famiglie contadine, in un generale abbrutimento intervallato da estenuanti sopraffazioni di baroni e mafiosi.

E’ dunque in gioco “uno stato di tensione psicologica e culturale costante, che attraversava come una corrente invisibile, ma emergente di volta in volta in un pullulare di simboli, l’intera vita collettiva”.

Non deve allora stupire il fatto che, in simili circostanze, la spinta verso una domanda di protezione potesse in parte - e specialmente in determinate zone – confluire nell’onorata società, l’unica che sembrava garantire una positiva risposta, grazie al vincolo associativo e l’inserimento in una struttura organizzata.

Questa può considerarsi una delle tante ragioni che spingeva un giovane, per dirla con il gergo mafioso, “a chiedere l’abitino”, cioè ad esprimere il desiderio di diventare “picciotto”.


 

Ndrangheta: cultura o subcultura?


 

I folkloristi hanno ripetutamente abbracciato la tesi dell’esistenza di un vero e proprio “ordinamento giuridico popolare”, secondo il quale le classi subalterne creano un loro sistema normativo non combaciante necessariamente con l’ordinamento statale all’interno del quale sono inserite.

La teoria è sicuramente molto suggestiva, e ci permette di scendere nei meandri della mentalità popolare, concretizzata nei proverbi, racconti, fiabe, canzoni, poesie.

In tutti questi aspetti, come avviene sempre per le cose del volgo, ci viene incontro la tradizione orale , perché non abbiamo fonti scritte.

Corrado Alvaro ha detto che “per la confusione di idee che regnava fra noi, a proposito di giustizia e ingiustizia, di torto e di diritto, di legale e di illegale, non si trovava sconveniente accompagnarsi con uno ‘ndranghetista”8. Da cosa scaturiva questa confusione d’idee?

Probabilmente dalla circostanza che i valori della mafia calabrese apparivano formalmente analoghi a quelli frutto della cultura contadina: infatti, essa aveva sempre tentato di prendere a prestito i princìpi popolari, gli unici che le potevano assicurare un consenso generale da parte dei ceti più bassi.

Anzi, certamente questi intravedevano nel modus operandi dell’Onorata la diretta manifestazione di valori ed aspirazioni comuni, realizzati con varie azioni.

Intelligentemente la ‘Ndrangheta si è costantemente irta a detentrice della moralità popolare, pronta a difenderla assieme ai soggetti che la interpretavano, e qui siamo ad un altro punto nodale della questione: l’immagine della suddetta quale cultura tradizionale.

Mariano Meligrana9 ha definito la “civiltà” mafiosa la grande illusione di quella contadina.

Per Lombardi Satriani, “la cultura dell’associazione assume i valori folklorici, ma li strumentalizza, caricandoli di finalità ad essi eterogenei; inoltre, il comportamento mafioso (…) rinvia ad un articolato sistema di norme. Questo, a sua volta, fa parte di un’organica subcultura”10.

Zagnoli11 chiama “cultura comune” quella ‘ndranghetista e quella contadina.

Ma com’è possibile?

Gli studiosi del settore ci hanno tenuto a precisare che “la coincidenza formale dei valori malavitosi con quelli folklorici, non deva indurci in alcun modo a ipotizzare la prima cultura come cultura popolare”.

La puntualizzazione è importante, perché agevola nel cogliere le dovute differenze.

Tenendo però sempre presente che la criminalità organizzata impersona essa stessa un autonomo ordinamento giuridico, originato dall’appropriazione e dallo snaturamento di quei valori.

E’ arrivata fino al punto di amministrare anche una sua giustizia, applicata solamente ai propri adepti, mentre interferiva pesantemente in quella istituzionale, intimidendo i testimoni.

La società mafiosa si pose come un sistema che aveva proprie leggi, poche, semplici e chiarissime, da far rispettare.

In questo senso, allora, è lecito supporre la convivenza di tre differenti orientamenti: lo statuale; il popolare, predestinato a mutare e poi svanire nel lungo periodo, ed infine quello ‘ndranghetista, che col secondo condivideva solo l’involucro esterno, non più il significato profondo.

L’esposizione della teoria del sociologo americano Sutherland12, uno dei membri della “Scuola di Chicago”, può esserci d’ausilio nella comprensione della eziologia criminale.

La scoperta è detta ‘delle “associazioni differenziali”’: avvalendosi anche dei risultati dell’antropologia culturale, S. giunge alla conclusione che l’idea criminale viene appresa per “trasmissione culturale” da chiunque sia calato in una corrispondente subcultura criminale.

L’ipotesi dello studioso toglie così ogni potenziale ai fattori genetici, dando al contrario assoluta prevalenza all’apprendimento.

I processi di comunicazione culturale, essendo più intensi e frequenti nell’area dei microgruppi, trovano in essi, se aiutati in senso antisociale, l’habitat e la “cultura” ottimale per la formazione del futuro delinquente.

L’apprendimento si sviluppa su due fronti, l’uno delle motivazioni ideologiche o culturali, l’altro delle tecniche operative, in una sorta di “alfabetizzazione” alla criminalità.

Relativamente alle motivazioni, tale processo si verifica attraverso il meccanismo definitorio e/o posizionale, rispetto alle norme morali, del diritto positivo e dei valori vigenti; il predominio di posizioni e/o di definizioni sfavorevoli comporta l’assunzione di atteggiamenti devianti o antigiuridici.

Ai “modelli” mentali e al sistema normativo accettato dalla maggioranza, si contrappongono vittoriosamente gli schemi del proprio microgruppo.

Per poter incidere le associazioni differenziali, come ogni altra azione determinante, i concetti di intensità e frequenza appaiono basilari: alla frequenza si connette la durata, all’intensità l’interiorizzazione.

Questi agenti vanno quindi messi in relazione con le capacità di rigetto dei soggetti coinvolti, tanto minori, quanto più questi stanno attraversando una fase più immatura dell’età evolutiva.

Si intersecano dunque, nella tesi del S., i rudimenti della sociologia, della psicoanalisi e della psicologia.

Non manca tra l’altro l’A. di sottolineare, ai fini della nostra analisi, ed in linea con il Weber, l’influsso decisivo del carisma di certi “degni compari mafiosi”, fascino emanato non soltanto da alcuni gangsters americani, ma in primo luogo dai protagonisti della malavita organizzata nel Bel Paese.

Successivamente, Cloward ed Ohlin13, con lo scopo di individuare le differenze specifiche tra le varie sottoculture delinquenziali, traducono in idea le effettive distinzioni nel concreto delle possibilità di accesso sia ai mezzi leciti, assimilati dai più, sia agli illeciti, per conseguire i traguardi dettati dal sistema.

Le diversità sono riconducibili, per i due intellettuali, a tre sottotipi: il criminale, il conflittuale, l’astensionista.

Il primo, che è quello che ci interessa, trova realtà nei gruppi criminali dediti ad attività rivolte al lucro, capeggiate da individui emblematici e fissi nella memoria collettiva, propensi a dare ordine e “razionalità secondo gli scopi” all’azione criminosa.

Sono anche tipiche mascherature borghesi, legami con politici, giudici, rappresentanti delle forze di Polizia; possibilmente, vengono eluse violenze palesi, essendone riservata la pratica nei casi estremi, con l’aiuto di specialisti.

L’apprendimento deviante si ha per gradi, percorrendo una lunga gerarchia criminale, proprio come avviene nella ‘Ndrangheta ed in tutte le mafie.


 

Crescita intraprendente di un’organizzazione


 

Mentre lo Stato unitario se ne stava assiso lontano e indifferente, le popolazioni calabresi qualcosa si attendevano perlomeno dalle amministrazioni locali, in specie da quelle comunali, di gran lunga più vicine e visibili.

Ma le lotte politiche dell’epoca determinarono, invece, un ulteriore incolmabile abisso tra potere circoscritto ad un’area limitata e cittadini.

Di siffatta situazione si nutrirà rapace per l’appunto la ‘Ndrangheta, espandendosi così ulteriormente.

A quei tempi, la legge elettorale riconosceva il diritto di voto unicamente su base censitaria, né, tantomeno, erano ancora sorti associazioni politiche o partiti, in guisa di strumenti di partecipazione collettiva alla vita comunitaria.

La conquista del potere amministrativo sarà a lungo l’oggetto del contendere tra famiglie e celebri personaggi nei vari comuni; la stessa legge in materia, come si diceva, basata sui collegi uninominali, accentuava il carattere spiccatamente personale della lotta politica, e la dimensione familiare della competizione elettorale, causando interminabili faide paesane.

Vittorio Cappelli14 ha osservato che “la brutale e completa identificazione del momento politico con l’affermazione degli interessi di classe del deputato costituisce, quindi, la base di una concezione privatistica della carica politica, gestita come ‘un affare di famiglia’”.

Questa visione personalistica della politica costituirà sempre una costante della storia della Calabria.

In simili circostanze, le clientele, la corruzione, le prepotenze ed i brogli erano all’ordine del giorno: cominciarono dunque le usurpazioni dei beni demaniali, un lungo morbo di tutto il Mezzogiorno, non solo delle terre calabresi.

Frequentemente, gli amministratori maggiori dei comuni, come i sindaci, occupavano abusivamente i fondi di uso pubblico, per soddisfare privati o familiari interessi.

Inoltre, anche i Prefetti non sempre specchiavano per onestà ed obiettività.

Secondo Franchetti, che raccolse le confidenze di un suo conoscente, “il Prefetto Mezzoprete, per mire politiche e per sostenere la sinistra, ha nominato sindaci camorristi e cretini”15.

Lasciando da parte la sua valutazione sull’intelligenza di questi sindaci, è certo che, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, cominciò a stabilirsi un legame di cointeressenza fra ‘Ndrangheta e potere politico, che i contemporanei avevano già acutamente messo in risalto.

Erano ben consci della sottile e subdola influenza picciottesca sulle elezioni amministrative locali, e del meschino mercanteggio dei voti, col quale i mafiosi vendevano la loro prontezza a sostenere quel determinato candidato.

Pure in tal caso, incontriamo pronunciamenti di Tribunali o Corti d’Appello, particolarmente perspicui.

La verità è che l’Ndrangheta voleva seriamente controllare tutta la vita pubblica, perfino negli aspetti più lontani dalle questioni politiche, per arrivare ad intrecciare una relazione ambigua ed oltremodo equivoca con lo Stato.

C’è da dire che non sempre le accuse erano fondate, poiché potevano essere mosse esclusivamente da bieche ragioni di sleale concorrenza politica.

Ciò che trapela, è che il rapporto tra associazione mafiosa e mondo delle istituzioni, quando riesce ad entrare nei processi, sfugge comunque ad ogni capacità probatoria dell’accusa.

Scatta infatti un curioso meccanismo: i rapporti dei carabinieri contenenti le denunce contro le varie ‘ndrine vengono sempre considerati degni di credibilità, ma se osano insinuare un qualsiasi legame fra queste e la politica, allora i giudici li destituiscono di fondamento.

A volte, forse, mancheranno pure le prove, ma più spesso mancherà a chi di dovere la voglia di conoscere e sapere, grazie ad un’indagine accurata e approfondita, forse per una riluttanza ad ammettere una verità così sconcertante.

Proprio nei decenni precedenti all’avvento del regime fascista, sarebbe avvenuto un processo di cementazione del rapporto tra malavita organizzata e governo, relativamente ancora alla gestione amministrativa locale, ed in parte a quella parlamentare.

Inoltre, l’insufficienza di consapevolezza circa la reale potenzialità del fenomeno, oltre alla assente riprovazione dei suoi metodi, avrebbe reso il connubio irrimediabilmente esplosivo.

Il fascismo non si atteggiò in modo tanto diverso: acciuffò soltanto i “pesci piccoli”, poveri contadini, mentre lasciò indisturbati i “pescecani”, i capibastone ricchi, magari perché iscritti al partito, e penetrati nelle fila del potere. Si ebbe “qualche podestà maestro di sgarro”, e addirittura “qualche proprietario capobastone”.

Giungono oramai gli anni ’20, l’incipit del totalitarismo, il quale permise che la ‘Ndrangheta continuasse tranquillamente la sua storia, fatta di antichi riti, simboli e ipocrita sacralità.

Non furono assenti, però, alcuni mutamenti che si svilupparono sul vecchio tronco: uno di questi, già esaminato, si può riassumere nella formula “funzione di governo”, esercitata nel campo dell’amministrazione della res publica e dei comuni.

Il secondo fu costituito dall’intromissione nell’istituto familiare, contesto ormai da tempo battuto dall’Onorata Società.

Tale invadenza veniva espletata, oltre che con la difesa della donna sedotta e abbandonata, tradita, vilipesa, anche con una prepotente politica matrimoniale, secondo la quale gli ‘ndranghetisti imponevano unioni nuziali fra i figli di rispettive famiglie al fine di rafforzare alleanze, o crearne di nuove, o di porre fine ad una sanguinosa guerra.

Un uso strategico ed economico del matrimonio, come in tutta la storia dell’uomo fino a non molti secoli fa.


 

I lacci che stringevano tra di loro ‘Ndrangheta e politica

 

Non si riusciva più a dissimulare il legame vischioso che teneva attaccate indissolubilmente la mafia e la politica, ed infatti molte relazioni dell’epoca testimoniano l’esistenza di tali intrecci.

L’allarme era oramai fortissimo. Nasceva anche la consapevolezza della razionalità della catena di delitti, compiuti secondo un piano logico-consequenziale continuo.

Gli autori “riescono tuttavia ad assicurarsi l’impunità, attraverso un bene ordinato sistema di protezione, finanche nei settori politici. Non è, infatti, raro che siffatti individui si trasformino al momento delle elezioni in propagandisti per l’uno o per l’altro partito, ed influiscano o tentino di influire, col peso delle loro clientele, sui risultati elettorali”16.

Sembra che la pressione delle ‘ndrine si concentrasse maggiormente nel circuito delle amministrazioni comunali, in quanto lì la stessa attività politica era guidata dagli “uomini di malaffare”, i quali, nei periodi elettorali, diventavano improvvisamente propagandisti dell’uno o dell’altro candidato, cercando di inquinare i risultati delle votazioni.

Il meccanismo era il seguente: chi voleva essere scelto per ricoprire una carica istituzionale, doveva promettere ai “malandrini” tolleranze e passive sopportazioni dei loro abusi, consentire la puntuale intromissione in appalti pubblici, concessioni di servizi, riscossioni di diritti d’uso civico, affitti, etc., diretti al loro illecito arricchimento.

Al tempo di Marzano, circolava la voce che il neoprefetto fosse giunto per assecondare la richiesta del suo predecessore Capua, la cui moglie aveva subito un attentato durante un tragitto in macchina; come si diceva che il Capua era salito al potere politico per mezzo dell’intervento mafioso locale.

Non erano solo dicerie, queste, purtroppo.

I partiti di centro-destra furono i primi a venir travolti da infuocate accuse parlamentari: era opinione diffusa in tutti gli ambienti politici reggini e presso l’intera stampa nazionale, che tale corrente usufruisse dell’appoggio ‘ndranghetista.

I rapporti leganti ‘Ndrangheta e politica non interessarono unicamente il PLI e i partiti di centro-destra, ma anche le grandi associazioni partitiche, quali il PCI, il PSI e la DC.

Quotidianamente, a Montecitorio, i deputati degli opposti schieramenti si attaccavano a vicenda, accusandosi reciprocamente di compromessi sporchi con l’associazione a delinquere. Ne risultava sicuramente un clima molto aspro ed acceso.

Finita la guerra, l’avvento della Repubblica e dei partiti democratici produsse, curiosamente, delle conseguenze anche sulle operazioni della ‘Ndrangheta, la quale doveva necessariamente orientarsi verso una direzione.

Prima , le fibbie avevano optato per una polisensa opposizione al fascismo; alcuni loro componenti, confinati, avevano conosciuto prigionieri comunisti e la filosofia che professavano, pregna di significato e di passione. Tale esposizione a questo indottrinamento li avrebbe cambiati.

Molti decisero addirittura di chiudere con quella vita, e di nutrirsi della “linfa” di estrema sinistra, aderendo al PCI e al PSI. C’era pure chi diventava promotore ed organizzatore delle sezioni di partito.

Le caratteristiche del comunismo – difensore dei contadini, dei proletari, della povera gente - attraevano profondamente quei giovani che prendevano parte all’organizzazione, e che si erano formati su di essa idee romantiche.

Che ruolo assunse il PCI di fronte agli scandali?

La sua reazione fu inizialmente contraddittoria e discontinua, lasciando così che la ‘Ndrangheta proseguisse indisturbata a contrattare il voto.

Questo, forse, perché il mondo culturale coltivava ancora un’idea semplicistica del fenomeno, non avendone compreso tutta la sua peculiarità, e le differenze con la mafia sicula.

Col passare del tempo, ad ogni modo, qualcosa si mosse, e il partito prese ufficialmente le distanze dal contesto malavitoso, cominciando ad espellere i compagni coinvolti in vicende poco chiare; con tale approccio comportamentale, marcherà una distinzione rispetto agli altri raggruppamenti politici.

La DC, d’altra parte, essendo in quegli anni il partito al governo, rappresentava per gli ‘ndranghetisti un vantaggioso affare da non perdere, e forse era proprio essa, ad essere maggiormente macchiata dagli intrecci sporchi.

In Calabria, i vari Prefetti mettevano in luce i rapporti di protezione e di scambio fra i sindaci democristiani e pregiudicati “poco raccoman-dabili”.

L’operazione Marzano si concluse bruscamente alla fine di Ottobre del 1955, per volontà di Tambroni: ma la piaga della malavita non guarì affatto, dato che pochi anni dopo un anonimo relatore riferiva che “gli omicidi si succedono l’uno all’altro con un crescendo impressionante. Le manifestazioni delittuose hanno soprattutto per teatro il capoluogo. Si uccide in pieno giorno ed al centro cittadino, all’americana, a volte anche impunemente.17

Dal capoluogo i reati si erano trasferiti nel circondario, cominciando così ad infestare la provincia.


 

La mafia diventa “imprenditrice”


 

La nota e appropriata espressione di Pino Arlacchi18 non poteva che

cogliere meglio nel segno.

La ‘Ndrangheta affarista, negli appalti e subappalti, nel circolo agrario, nel traffico di tabacco, allora di consistente proporzione.

Ma c’è una novità, intorno agli anni Settanta: politici, giudici, carabinieri e polizia assumono un approccio omertoso, che nasconde in realtà complici consensi e ragionato silenzio.

Una reticenza che agevolerà l’addensarsi di un potere delinquenziale ai massimi livelli, alle più alte qualifiche.

La presenza di ‘ndranghetisti potrà registrarsi perlopiù negli uffici e negli enti pubblici, i quali non erano stati ancora invasi da individui di tal risma.

Orazio Barrese19 sottolineava come “il pubblico impiego serve al mafioso per avere una patente di rispettabilità, il riconoscimento sociale”.

Ormai, costui aveva scalato la vetta delle élite, e raggiunto livelli di un certo spessore: lo si desunse dal comportamento delle banche.

Nel 1967 venne scoperta una truffa commessa da Antonio Macrì ai danni della filiale del Banco di Napoli di Siderno, che, stando alle affermazioni del presidente del Tribunale di Locri, avrebbe coperto la sporca provenienza del danaro dal capobastone ivi investito.

L’interesse della malavita per gli istituti di credito era il frutto della recente fisionomia commerciale e manageriale della Società, perché si rendeva chiaramente necessario nascondere gli intensi introiti delle attività illegali.

Nelle banche era allora possibile rintracciare giri vorticosi di cambiali e di assegni, reperire moneta “inquinata” da riciclare, trovare traccia di fidi e prestiti ai cosiddetti “uomini di rispetto”, sulla sola base del loro nome.

La Banca Nazionale del Lavoro di Reggio concesse a Paolo De Stefano e a sua moglie un fido, senza alcuna garanzia, “per motivi d’opportunità connessi al particolare ambiente in cui operiamo, nel quale il signor De Stefano esercita una spiccata influenza”20.

Quando nel 1977 si aprì a San Calogero una piccola cassa rurale, essa fu adocchiata da soggetti alquanto sospetti della zona, bisognosi di concessioni, mutui e sovvenzioni finanziarie.

Contemporaneamente, si ebbe una rilevante espansione territoriale nel resto della Calabria, andando ad investire zone non tipicamente mafiose, ad esempio Catanzaro e provincia, Crotone e vicinanze, Lamezia Terme, Vibo Valentia, Soverato e basso Jonio, ma soprattutto la provincia di Cosenza, come Paola e Cetraro.

Furono questi gli anni dell’emigrazione fuori Regione, in direzione del Centro-Nord: Lazio, Liguria, Umbria, Piemonte e Torino in particolare.

A dar fede ai dati forniti alla Commissione antimafia nel Luglio 1985, la ‘Ndrangheta aveva già messo le radici pure in Lombardia, attraverso il compimento di sequestri di persona e traffico di droga.

Ma non si fermò all’Italia. Ben presto valicò i confini nazionali, per trovare collocamento anche all’estero, in primo luogo Canada, Stati uniti, Australia.

In questi Paesi i legami erano antichi e solidi, atti allo svolgimento di spaccio di droghe provenienti dalla nostra Penisola, e resistono tuttora, indissolubili come non mai.

Nel 1988 l’Arma dei Carabinieri e la Guardia di Finanza smascherarono una ramificata organizzazione attiva nell’America del Nord, che metteva in comunicazione fra di loro Calabria e USA per realizzare uno scambio di eroina contro cocaina: l’operazione passò alle cronache come “pizza connection 2”.

L’Australia pare fosse dominata dalle cosche di Platì, ugualmente impegnate nei traffici di stupefacenti, commercio rivelatosi per queste immediatamente molto redditizio.

Il magistrato Giuseppe Tuccio giunse alla certezza che la mafia di Gioia Tauro e quella del Canada fossero in contatto regolarmente, in una collaborazione assidua.

Ma tutta la “comunità” ha saputo legare con estranei sistemi criminali, da quello francese, tedesco, canadese, a quello marsigliese, tunisino e corso, testimoniando in tal modo la sua grande abilità nella creazione di nuovi rapporti, e nel radicamento in territori stranieri.

Quali fattispecie concretava l’Ndrangheta per alimentare il suo nuovo giro?

Era l’era dei sequestri, adesso, visti dalle giovani leve come una promettente sorgente di denaro, tantissimo denaro, da reimpiegare nei lavori di subappalto per l’edilizia.

Dal Lametino le famiglie si spinsero fino al Centro-Nord, in Piemonte, in Pianura Padana, a Roma.

La situazione cominciava a diventare incontrollabile, particolarmente a Torino ed in tutto il Piemonte; un convegno promosso dal Consiglio Regionale piemontese rendeva pubblico il fatto che la mafia calabrese era coinvolta in un numero indefinito di rapimenti, aventi per ostaggio talvolta uomini, talaltra donne e bambini.

Una lunga lista, che avrebbe facilitato l’uso della definizione, per la regione calabrese, di “ terra dei sequestri”.

A cavallo tra il 1983 e 1985, un rapporto del Ministro dell’Interno Scalfaro riportò le seguenti cifre: 13 vittime prelevate dal Nord e, in una seconda battuta, condotte in Calabria, dove furono liberate.

Il modus operandi in questo genere di reato prevedeva infatti la vendita degli ostaggi a bande locali stanziate sull’Aspromonte, che si occupavano anche della riscossione del riscatto.

Nel 1982, finalmente, la legge Rognoni-La Torre arriverà a tentare una prima stangata radicale ad ogni ingente accumulo di ricchezza di provenienza illecita.

La legge apportava una storica ventata di determinazione alla precedente legislazione antimafia, perché colpiva, “per la prima volta i ricchi, certo non tutti, ma quelli di un certo stampo. Nell’ottica della nuova normativa, cioè, la ricchezza non è più un elemento di protezione dal sospetto, ma, a certe condizioni, fonte essa stessa di sospetto, e segno di pericolosità sociale21”.


 


 

Le guerre di ‘Ndrangheta e la struttura organizzativa


 

La Prima Guerra di ‘Ndrangheta


 

A metà degli anni Settanta risale un’era di scontri e faide tra famiglie mafiose, che avevano lo scopo di realizzare una grande ristrutturazione della compagine ‘ndranghetista, e che costituisce per l’opinione pubblica uno dei volti più rappresentativi della Picciotteria.

Non si contano i focolai accesisi in questi anni: molti paesi di varie province vennero coinvolti.

Prima di tutto, Oppido Mamertina, Sinopoli, Gioia Tauro, poi Seminara, Ciminà, Cittanova, Taurianova, Palmi, Guardavalle.

Erano battaglie di sangue senza fine per la supremazia di un gruppo su di un altro, scatenate dalle più varie cause, un piccolo sgarbo, un matrimonio mai celebrato, o un gesto di sfida diretto al capobastone. Sono le classiche faide, appunto, residui di una cultura arcaica e primitiva, ancora fondata sul mito della violenza come strumento vincente per la soluzione di qualsiasi dissapore.

Già nei primi anni Settanta, a Seminara, per il dispetto di un Pellegrino ad un più potente Gioffrè, era scoppiata tra i rispettivi clan una guerra che produsse circa trenta morti.

E precedentemente, sempre alla fine degli anni Sessanta, la faida di Ciminà, piccolo comune di poco più di mille abitanti, aveva disseminato un ugual numero di vittime.

Facendo un rapido bilancio, si può affermare, dati alla mano, che dal 1950 al 1980, si siano totalizzati 2100 omicidi, con almeno altrettanti tentati omicidi. La spaventosa media è di cento omicidi l’anno; la percentuale, nella sola Calabria, è di 4,7 su 100.000 abitanti, mentre in Italia 2,1.

La statistica sulle morti violente della Regione condotta dall’Università di Reggio Calabria ci mostra un livello di frequenza molto elevato, il più alto della Penisola. Ma perché i conflitti si svilupparono con l’inizio degli anni Settanta?

In questo lasso di tempo, i capi sentivano il bisogno di ricementare vecchie alleanze e legami di parentela o amicizia, a causa dell’evoluzione in senso imprenditoriale dell’organizzazione mafiosa, e, quindi, della nascita di nuovi grossi interessi economici. Ciò che spesso si celava dietro la difesa dell’onore violato, era in verità la feroce tutela di tali aspirazioni all’accumulo di ingenti ricchezze, al controllo del territorio.

I due killers che imbracciarono le armi in quel tardo pomeriggio del 20 Gennaio 1975, non potevano mai immaginare il significato di quella celebre morte: fulminato dai colpi rimase Antonio Macrì, uno dei maggiori capi della ‘Ndrangheta calabrese fino a quel momento.

Era un uomo della “vecchia guardia”, formatasi all’epoca del fascismo; si era saputo guadagnare l’ambito titolo di “don”; rispettato, omaggiato, temuto. Ora un tale “eroe del crimine” giaceva privo di vita a terra, alla pari di tanti altri bersagli comuni dell’Onorata. Dalle stelle alla polvere.

Quest’omicidio arrivava in un periodo di lotta fra vecchia e nuova generazione, simbolo dell’ urgenza di rinnovamento avanzata proprio dalle leve emergenti.

Già il 1974 era finito male: il 24 Novembre due sicari erano piombati all’interno del Roof Garden di Reggio Calabria, scaricando pallottole verso Giovanni e Giorgio De Stefano, allora identificati con la nuova generazione, assieme al loro fratello Paolo.

L’episodio confermava il conflitto in atto tra questi ultimi e don Mico Tripodo, emblema della vecchia guardia.

La guerra è un dato ineliminabile per le associazioni malavitose, che sono composte da cosche fortemente radicate nel territorio. Se una nuova famiglia vuole emergere, deve riuscire a farsi largo tra gruppi oramai affermati, il che comporta sempre il ricorso alle armi.

Il cosmo ‘ndranghetista non è un universo tranquillo, pacifico, bensì precario, instabile, in continuo movimento.

Il futile pretesto dell’offesa rappresenta solo la goccia che fa traboccare il vaso, l’esplodere di una tensione accumulata a lungo, e non più sopportabile.

Nella ‘Ndrangheta si può uccidere anche per cose che possono apparire banali, come ad esempio la mancanza di un saluto” ha dichiarato Pino Scriva22. Saverio Morabito, invece, ha raccontato di aver ucciso il corleonese Salvatore Trombatore, perché aveva dato uno schiaffo a suo fratello. “Per noi, una cosa del genere è un’offesa che si deve pagare con la morte”23.

Dietro il fatterello, i mafiosi vi vedono costantemente la manifestazione del disprezzo, dell’assenza di rispetto: siamo al preludio della vendetta.

Chi non tiene conto delle leggi della mafia, deve pagarla cara, altrimenti la ‘ndrina che subisce viene additata a vile.

Soccombere o combattere: tertium non datur.

Altra peculiarità di queste stragi è la loro natura intestina, la quale determina aggressività fra membri della comune cosca originaria, spaccatasi irrimediabilmente in due o più.

Prima queste costituivano un’unica compagnia criminale.

La metà del decennio di cui stiamo trattando fu percorsa da una domanda di novità: i giovani aspiravano a fare più soldi in meno tempo, e questo era possibile ricorrendo ai sequestri di persona e allo spaccio di droga. Ma i vecchi capibastone si opponevano: tradizionalisti, ripudiavano il rapimento, soprattutto di donne e bambini; erano diffidenti verso lo sconosciuto, non volevano avere a che fare col traffico di stupefacenti.

Sembra che anche ‘Ntoni Macrì deplorasse nettamente questi affari, e d’altra parte, una consistente “vulgata mafiosa” lo dipinge come “ il boss gentiluomo”, dotato di una sorprendente coscienza morale.

Anche altri “pezzi da novanta” la pensavano esattamente come lui: il padre Francesco, Giuseppe Nirta, Domenico Piromalli, Domenico Alvaro, e, secondo Antonino Mammoliti, pure Mommo Piromalli.

Diversamente però da Macrì, tutti costoro tolleravano che i loro giovani intraprendessero siffatte “imprese”; una saggia strategia, che li mantenne a lungo in vita.

Nella mafia calabrese, ogni mutamento passa per una guerra, e non può non transitarvi: puntualmente, dunque, dopo ciascun conflitto più o meno trascinato, ritroviamo nuovi assetti.

E’ quanto accadde proprio con l’eliminazione di un individuo del calibro di Macrì: essa aprì la strada a una generale ristrutturazione delle cosche.


 

Struttura generale della ‘Ndrangheta


 

L’associazione si dota di una struttura notevolmente razionale e matura, nella quale tutto è al suo posto, e che sopravvive ancora ai giorni nostri.

I mafiosi vivono all’interno di una ben precisa gerarchia, e assumono titoli dai nomi piuttosto evocativi: al di sopra di tutti sta il cosiddetto “Capobastone”, dal valore simbolico del comando che quell’arnese acquisisce; viene anche apostrofato con l’espressione “ Omo di panza” o “Pezzo da novanta”. Molto venerato, riverito, temuto, degno di profondo rispetto, può accomunarsi al “padrino” o “boss” di Cosa Nostra.

Alla radice dell’”albero della ‘Ndranghita” troviamo, invece, il “Giovane d’onore”, il neonato figlio del capobastone appena battezzato alla organizzazione, cioè a dire il mafioso iure sanguinis.

Appena sopra, il primo vero grado della scala: il “picciotto d’onore”, semplice esecutore materiale degli ordini, obbediente, rispettoso della gerarchia e dei segreti della “malandrina”; insomma, potrebbe considerarsi un soldato.

Più in alto di lui, una carica dal nome equivoco: “camorrista”, una denominazione presa a prestito dalla criminalità campana, che testimonia le origini da questa mafia. Quest’affiliato inaugura gli incarichi più facinorosi della ‘Ndranghita, essendo dotato di compiti particolari, ed anche di maggiore anzianità del picciotto.

Seguono lo “sgarrista, o camorrista di sgarro”, con l’esclusiva incombenza di riscuotere le tangenti; il “santista”, titolo onorifico attribuito al socio particolarmente distintosi per “meriti” criminali, caratterizzante coloro che entravano a far parte della massoneria ( fenomeno avvicinato dalla ‘Ndrangheta intorno alla metà degli anni Settanta per sue mire di espansionismo politico, economico e istituzionale ); il “vangelo o vangelista”, così definito, in quanto ha giurato fedeltà alla ‘ndrina posando la mano sul Vangelo, premiato, come il santista, per specifici meriti.

Arrivando a ricongiungersi al vertice, troviamo prima il “quintino”, affibbiato contraddistinto da un tatuaggio a cinque punte, quindi l’” associazione”, grado che compete ai capibastone facenti parte dell’organo collegiale decisionale.


 

Radiografia di una ‘ndrina


 

In Calabria l’associazione mafiosa ha più di un termine: è detta ‘Ndranghita, che vuol dire “fibbia”- dal nome del fermaglio di metallo od altro materiale all’estremità della cinghia – per alludere a tutta l’organizzazione; “malandrina”, o, abbreviando, “’ndrina”, per indicare quella che in Sicilia si chiama “cosca”, dalla foglia del carciofo, cioè una singola famiglia.

Un piccolo schema può certamente contribuire a districarsi nella complessità della sua ossatura:


 

  1. Corpo di società o Corpo di cavalleria, formato da un capo e da ventiquattro elementi al suo totale servizio, situato in ogni capoluogo di Tribunale (Reggio Calabria, Locri, Palmi, Vibo Valentia, Crotone, Lametia Terme);

 

  1. Ndrina generale, circondariale, e composta dalle varie ‘Ndrine di paese, le quali si suddividono a loro volta in:


 

    1. Ndrina maggiore o in testa, costituita dai camorristi;

    2. Ndrina minore, formata dai picciotti.


 

All’interno della singola famiglia, si trovano al vertice della piramide il “Sergio capo”, detto talvolta “crimine”. Si tratta del capo ‘ndrina.

Lo segue, per autorità, il “contabile”, con evidenti mansioni di cassiere del fondo criminale; si incontra dopo il “mastro di giornata”, detto anche “custode d’umiltà”, poiché ha obblighi di sorveglianza in primis durante le varie riunioni, in secundis fuori; ed infine, il “puntaiolo”.

La piramide contiene al suo interno i “camorristi” già conosciuti, che, a seconda dei ruoli da loro svolti, si possono classificare in “di sangue”, “di capricciola”, “di seta”, “di sgarro”.

Al gradino più basso ci sono di nuovo i “picciotti”.

In linea di massima, il Sergio capo era, all’inizio della sua carriera, un contadino o bracciante che, dopo essersi fatto notare da soggetti malavitosi in carcere, nel quale è stato recluso per reati di varia natura, una volta riconquistata la libertà, sotto un albero, col “camuffo” al collo, ha giurato eterna fede all’Onorata Società.

Da quel momento, grazie alla assoluta dedizione e al rispetto guadagnato, è stato “rimpiazzato”, promosso, cioè, ai gradi di camorrista, mastro di giornata, contabile, ed infine, capobastone.

Nel frattempo si è arricchito con le mazzette o tangenti pretese dalla sua cosca, mettendo da parte un buon gruzzoletto col quale imboccare la strada dell’industria e del mondo degli affari.

Ora c’è un uomo nuovo, appena affacciatosi alla scena dell’imprenditoria, pieno di successo: apparentemente ligio alle leggi, mantiene un’aura di onestà non suffragata dalla realtà.

Un “pezzo da novanta” si trasforma quasi immancabilmente in “galantuomo”; ci tiene ad ostentare un comportamento da uomo irreprensibile, e si sa travestire da benefattore della sua comunità.

Nella formazione del picciotto l’incidenza dell’ambiente è un fattore nient’affatto irrilevante, considerando l’ovvia constatazione che il ragazzo non può tramutarsi in mafioso dalla sera alla mattina, ma necessita certamente di un lungo periodo di preparazione, detto di pre-criminalità, durante il quale passa attraverso una fase di abbandono educativo, familiare, scolastico, religioso, di indigenza, disoccupazione, di stenti economici.

La povertà – ha scritto Emanuele Mounier – fa trovare alla partenza della vita psichica uno sbarramento d’impedimenti: salute indebolita da ascendenti e discendenti, cattivo nutrimento, spettacolo precoce della miseria e della laidezza, vita familiare spesso agitata e dura, molteplicità delle ferite affettive dell’infanzia. Sempre in condizioni di subordinazione e talora di umiliazione sociale, l’uomo di condizione modesta matura prestissimo un complesso di inferiorità, che gli darà impaccio durante tutta la sua esistenza”.24

E’ anche vero che la nostra società si rende colpevolmente responsabile di questo processo, imponendo i miraggi del successo, della carriera, del primeggiare a tutti i costi sugli altri, in una corsa interminabile e verso il nulla: in poche parole, lascia disinibite le nostre cariche aggressive.

Su di un individuo tanto delicato e a rischio come un povero agricoltore, questi agenti lavorano molto, portandolo a optare per la criminalità organizzata.

I dogmi ai quali si deve ispirare, una volta entrato nel “giro”, sono tre: ubbidienza, rispetto della gerarchia, e segretezza, in primis sull’identità degli associati.

La disponibilità ad eseguire gli ordini è veramente cieca e piena. Il picciotto deve accettarli aprioristicamente, senza chiedere alcunché.

E così, una volta diventa ladro, una volta palo, un’altra “ferriuolo”, derivato da “ferrija”, il vorticoso giro della trottola, stante ad indicare la febbrile attività dello stesso quando deve segnalare al mastro di giornata l’arrivo di venditori ambulanti e commercianti affinché quest’ultimo possa poi estorcere loro la mazzetta.

Anche in carcere continua questo modus vivendi; il più giovane ed inesperto, infatti, è tenuto ad occupare, per dormire, la branda più vicina al gabinetto, mentre deve lasciare al più anziano il posto migliore, in alto.

Ecco un memoriale di una cerimonia di battesimo di un picciotto:


 

Mastro di giornata!”

Che volete, sergio capo?”

Stasera formiamo”.

Dove?”

Il primo “dà il punto”, e l’altro va in giro per il paese, avvicina “gli amici”, e sottovoce, perché “non lo senta nemmeno domeneddio”, li informa sulla decisione.

All’ora stabilita, sul luogo dell’appuntamento, il “palo” dirotta i consociati verso un secondo punto, dove il mastro li guiderà ad altro posto.

La prudenza non è mai troppa per loro, dato che l’esperienza insegna che “in ogni gregge c’è una pecora vucculusa”, un tizio di bocca larga che va ad avvertire i carabinieri.

Questo è il rituale di riunione di una ‘ndrina: i suoi componenti, per tutto il tempo, resteranno in piedi o in ginocchio, con le braccia serrate sul petto, gomito a gomito. Ecco sopraggiungere il capo:

Buon vespero, sergi compagni”.

Buon vespero” rispondono in coro.

State comodi, sergi compagni?”

Su che cosa?” sempre all’unisono.

Sulle regole sociali”.

Accomodissimi”.

Precedentemente, la ‘ndrina usava riunirsi solo il sabato, dopo il tramonto del sole, in campagna, dietro un pagliaio o nel bosco. Al giorno d’oggi, invece, non sussiste più alcun limite, ed è possibile che la società “si formi e si sformi” anche in pieno giorno, pure in luoghi chiusi.

In nome della società organizzata e fidelizzata, in nome di Fiorentino della Bruzia e del Granduca di Caulonia, a nome dei nostri tre vecchi antenati cavalieri spagnoli Osso, Mastrosso, Carcagnosso, che per noi hanno sofferto celle scure e carceri penali, che battezzavano i locali con ferri e catene, io battezzo questo locale con la mia fede e lunga favella; e se fino a questo momento lo riconoscevo per locale oscuro di passaggio, da questo momento in poi lo riconosco sacro santo e inviolabile, che può formare e sformare questo onorato corpo di società”.

Grazie” rispondono i gregari.

E di nuovo il capo:

State comodi, sergi compagni?”

Per che cosa?”

Per il sequestro delle armature”.

Accomodissimi!”

Mentre il mastro di giornata, che fino a questo momento è rimasto alla sinistra del capo, fuoriesce dal circolo, il primo riprende:

A nome della società organizzata e fidelizzata; a nome del nostro severissimo San Michele Arcangelo, che da una mano porta spada e bilancia, e dall’altra pesi e misure, che misurava e ritagliava, così a voi vi ritaglio le armature e le sequestro. Chi tiene specchi, sferri, o armi infami, le consegni a mano del maestro di giornata”.

Il mastro, allora, fermandosi dinanzi a ciascun affiliato, gli passa la “puliciata”, cioè, gli sequestra le armi, delle quali, d’altra parte, si spoglia anche il capo, perché tutto, specchi (rasoi), sferri (coltelli) e armi “infami” (fucili, pistole ed armi da fuoco in genere), deve essere evidenziato.

Tale sequestro non ha lo scopo di fugare dei pericoli, bensì di verificare che ciascun associato sia guarnito di armi, sia per difendersi, che per “accavallare” un sergio fratello, per passargli un’arma, in segno di solidarietà in caso di bisogno.

Infatti, chi fosse colto in questo frangente privo di sferro, andrebbe incontro a delle severe punizioni, ed ugualmente, qualora gli venissero trovate armi non “dichiarate” alla società.

Armiamoci, compagni di coltello e di sventura, come si sono armati i nostri vecchi antenati Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che dove c’erano due carretti piantarono due lunghi spadini, che fecero guerra in Calabria, in Sicilia e in tutto lo stato napoletano, dove c’era una palla che andava girando per tutto il mondo, fredda come il ghiaccio, calda come il fuoco, e umile come la seta. E chi la tradirà, giuriamo, belli compagni, che la pagherà con cinque o sei coltellate nel petto, per come prescrivono le regole sociali. Calice d’argento, ostia consacrata, con parole di omertà è formata la società”.

Grazie!”

Il mastro affida ad uno dei picciotti l’incarico di fare il palo, ruolo avente non solamente la funzione di avvisare dell’eventuale presenza vicina delle forze di polizia, ma anche quella di allontanare soggetti indesiderati, in quanto estranei.

Quest’ultimi nel gergo sono detti “contrasti”: il palo deve convincerli fermamente, con tono deciso e chiaro, a cambiare direzione, verso un luogo distante da quello del raduno.

Se il suo interlocutore facesse orecchie da mercante, potrebbe arrivare a ricorrere alle armi.

Una volta espletate tali formalità, la società è stata formata, ed hanno inizio i lavori.

L’organizzazione si riunisce per differenti motivi: o per definire i piani criminosi a vario titolo (furti, rappresaglie rivolte a chi abbia offeso un membro, o abbia ricusato la protezione, o non abbia voluto versare la tangente); o per concordare gli aiuti da versare ai latitanti o carcerati; o per “rimpiazzare” qualcuno che abbia chiesto l’onore di entrare a far parte della fibbia; o, altra importante cerimonia, per “attaccare i ferri”, cioè promuovere al grado superiore chi si sia segnalato per azioni valorose; infine, per sottoporre al giudizio del Tribunale di ‘Ndrangheta un traditore.

Ma continuiamo quindi a vedere come prosegue la cerimonia del battesimo del locale, la prima celebrazione sociale per il neofita, a carattere grottescamente sacrale.

L’aspirante è ancora un “estraneo”, un “reclùto”, in poche parole non è ancora diventato un picciotto.

E’ il momento del rito del “rimpiazzo”.

Il capo ‘ndrina ripete il suo ritornello: “State comodi, sergi compagni?”

Per che cosa?”

Per passare alla prima votazione sul conto di X…Y…”

Accomodissimi!”

A questo punto, il capo pronuncia la formula della prima votazione: “Col permesso del camorrista, capo giovane e puntaiolo a mano, girando fino a questa destra dei picciotti, non faccio altro che passo la mia prima votazione sul conto di X…Y…Se fino a questo momento lo riconoscevo per un contrasto, da questo momento in poi lo riconosco come ‘un giovane d’onore, che appartiene o non appartiene’ a questa onorata società”.

Gli altri, nel frattempo, ad eccezione del mastro di giornata, dopo aver recitato “Grazie!”, o ripetono la formula, o, se non la ricordano, si limitano a dire: “Confirmo”; esaurito il giro, il capo pronuncia di nuovo la formula per la seconda votazione.

A nome della società organizzata e fedelizzata, col permesso del camorrista, capo giovane e puntaiolo, a mano girando fino a questa destra dei picciotti, passo la mia seconda votazione sul conto di X…Y…E se fino ad ora lo riconoscevo per un giovane d’onore, da questo momento in poi lo riconosco per un picciotto ‘ fatto in voce’, appartenente a questa onorata società!”

Al termine di tutto questo macchinoso rituale, con la terza votazione il nuovo adepto viene definitivamente dichiarato “picciotto affermativo”, legato oramai indiscutibilmente all’Onorata.

C’è però, in aggiunta a questa terza formula, un’appendice, un giuramento proferito sempre dal primo dei primi, accompagnato dai suoi uomini:”…e giuro con lui di spartire il giusto ed ingiusto, centesimo fino all’ultimo millesimo, qua e fuori di qua, e in qualsiasi località che ci possiamo incontrare. Se poi faglia o rifaglia e macchia d’onore porta o infamità, va a carico suo, e a discarico della società”.

Il mastro di giornata si dirige verso il picciotto, e si rivolge a lui con queste parole: “La società vi accetta con un bacio per ciascuno, e con una stretta di mano”.

Indi, lo prende per mano e lo accompagna in giro; e tutti, a turno, gli stringono l’arto, e lo baciano.

Il picciotto appena nato deve quindi a sua volta fare una promessa solenne: “ Giuro davanti alla società organizzata e fedelizzata, rappresentata dal nostro onorato e sergio capo, e da tutti i camorristi e i picciotti, di essere fedele a loro e a tutta l’onorata società, e di adempiere a tutti i doveri che mi spettano e che mi verranno comandati, se necessario anche col mio sangue”.

Grazie!” rispondono in coro i suoi nuovi “fratelli”.

Il lessico mafioso


 

Nel mondo del crimine organizzato resiste ormai da due secoli un gergo ben costruito e stratificato, con il quale i suoi componenti comunicano quotidianamente fra loro, affinché gli estranei rimangano all’oscuro dei piani, dei propositi e delle dinamiche strutturali dell’associazione.

Ecco allora qui offerto, per chi ne fosse incuriosito, un piccolo vocabolario calabro-‘ndranghetista:

 

Crimine, criminale = Capo ‘ndrina

Mastrisi = Maestro di gergo

Tribunale d’omertà = Organo giudicante

Cumpari, cugini = Affiliati

Corpo rurale = Giudici mafiosi

Fibbia, ‘ndrina = Zone territoriali mafiose

Omini di panza = I mafiosi al vertice del comando

Picciotti di giornata = picciotti per informazioni e sorveglianza

Serpentina = Accordo tra affiliati

Tufa = Pistola

Cognata = Scure

Difendere il sangue = Vendicare un abuso (offesa) o sgarro

E cica! = Esclamazione traducibile conSilenzio!”

Scargiati, infami = Confidenti della polizia, gente di bocca

larga

Giusta = Polizia

Zaffi = Poliziotti

Tirate = Duelli

Lasagne = Sfregi

Stanziare = Predisporre un’azione

Buffittuni = Schiaffi

Ncavallati = Armati

Corredo = Sovvenzione ai detenuti

Dare il disparo = Promuovere a camorrista di sgarro

Bove = Orologio

Stratia = Fucile o mitra

Ntufare = Sparare

Fare l’utri = Uccidere

Sbacchettare oppure grattare = Rubare

Viene di losco = Espressione alludente ad un oggetto rubato

Màrmuri = Vacche

Scarparo = Maiale

Sbramante = Animali ovini

Carnente = Donna ( amante )

Tempera = Pane

Chiarenza = Vino

Bozzare = Far silenzio

Sbrignare = Andar via

Cuba = Casa

Lampante = Olio

Cani = Guardie di finanza

Zaccagno = Coltello

Pila streusa = Soldi falsi

Palomba = Lettera minatoria

Diritto di capriata = Mazzetta o tangente

Bait = Furto

Specchio = Rasoio


 

Capitolo terzo

Le attività criminali e le proiezioni fuori Regione


 

Il grande salto degli anni Sessanta


 

Per conoscere le vere attività della mafia calabrese, quelle nelle quali ha saputo dimostrare una singolare capacità e fiuto capitalistico, occorre necessariamente arrivare agli anni Sessanta.

Al termine dell’operazione Marzano, intorno al 1959, già qualcosa era cambiato: grazie al connubio con la politica, i capibastone potevano tranquillamente gestire ogni settore, primo fra tutti quello della mediazione nel commercio degli agrumi.

Una tale presenza aveva come conseguenza il brusco annullamento di ogni forma di competitività, dal momento in cui “nessun altro concorrente deve commerciare nelle zone di ‘rispetto’”.25 Sulla scena rimarrà solo il mafioso.

E’ evidente che, così operando, i capimafia godono di un superguadagno”.26

Le ‘ndrine manifestano una tendenza a penetrare nel terreno economico, riuscendo in poco tempo ad assurgere alla posizione monopolistica, a interferire pesantemente nei rapporti di lavoro, a decidere le linee dello sviluppo.

Gli anni successivi confermavano lo sviluppo delle varie famiglie alla volta di territori e settori economici ancora tutti da scoprire, come il mercato ortofrutticolo di alcune città calabresi.

Non sarebbe mancata la mazzetta, tratto permanente dell’Onorata, che non l’avrebbe abbandonata mai.

Col sopraggiungere del boom edilizio, andavano aumentando le grandi opportunità di nuovi ingenti profitti pecuniari, in particolare in occasione della costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria.

Certamente, i lavori pubblici rappresentavano per la malavita un’attività a lei confacente.

Ma c’era stato anche il contrabbando di sigarette, in una fase primitiva e primordiale, poi trasformatosi in commercio di sostanze stupefacenti, affare che alla ‘Ndrangheta ha fruttato parecchi miliardi in pochi anni.

Nonostante l’ammodernamento degli interessi, l’agricoltura, negli anni Sessanta, continuava ad offrire all’Onorata diverse possibilità di arricchimento, attraverso il coinvolgimento nell’ambito della raccolta delle olive, e così anche la forestale.


 

La prima emigrazione degli ‘ndranghetisti al Nord


 

Per avere un quadro realistico ed attendibile delle potenzialità della ‘Ndrangheta, è inevitabile abbandonare momentaneamente la Calabria, e spostarsi al Nord, nel profondo Nord industrializzato ed economicamente sviluppato.

In questo tragitto, ci si imbatte subito in un’altra caratteristica dell’organizzazione, che la differenzia nuovamente dalle altre: unica tra le forme di criminalità organizzata, costituisce delle filiali della cosca madre, ancora residente in Calabria.

Si tratta di trasferimenti stabili, non occasionali, o temporanei, e questi consentono alla stessa di avere un rapporto con il territorio più forte. Conseguenza della struttura familiare, punto di forza della ‘Ndrangheta, che l’ha fatta diventare la prima mafia del nuovo millennio.

Molte ‘ndrine hanno ormai due sedi: una in Calabria, la “succursale” nei vari comuni del Centro-Nord.

Basti pensare alla famiglia Mazzaferro, di cui Giuseppe a capo dei “locali” in Lombardia, Francesco a Torino, e Vincenzo, invece, rimasto a Marina di Gioiosa Jonica, dove venne ucciso nel 1993.

L’ insediamento al Nord è avvenuto con il cosiddetto “sistema delle filiali”: ogni gruppo, come abbiamo visto, si dotava di una propaggine al Nord, o anche all’estero, laddove interi nuclei mafiosi esportarono tutto un insieme di usanze e tradizioni.

L’aspetto discriminante fra la ‘Ndrangheta, la Mafia e la Camorra, sta nel fatto che la prima mantiene i suoi emigrati nelle nuove destinazioni, mentre mafiosi e camorristi, solitamente, una volta concluso l’affare, fanno ritorno a casa.

Il processo di esportazione interna del fenomeno mafioso ha inizio in un periodo abbastanza datato, perlomeno tra gli anni Cinquanta e Sessanta, secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia ( in particolare Antonio Zagari e Alberto Nobili ).

All’origine, la sciagurata combinazione di due fattori eterogenei: il soggiorno obbligato, e l’emigrazione di massa dei lavoratori del Sud.

Il soggiorno coatto, come si è già notato, ha rappresentato una potente causa di contaminazione e di contagio in zone “vergini”.

In concomitanza con l’ondata di esodo dal Sud al Nord, anche gli ‘ndranghetisti si inserirono nel processo di emigrazione, stabilendosi lì con le famiglie.

Era un fenomeno generale, che ha riguardato tutta la popolazione meridionale, ed ogni organizzazione mafiosa, ma che sembra aver avuto una specificità per la malavita calabrese, la quale, sicuramente con maggiore consapevolezza, ha optato per spostare fuori della Regione un pezzo della propria famiglia, impiantandolo stabilmente nelle zone scelte.

Forse in principio non era stato così, ma in seguito, l’emigrazione dei malandrini, in un primo tempo spontanea, si trasformò in una scelta strategica, attuata per assicurarsi la penetrazione e l’occupazione di nuovi territori.

Occupazione: occorre dunque ritenere che appunto questa sia stata, e non meramente un’infiltrazione?

Quella che bisogna ridiscutere è la concezione stessa del territorio. Se si pensa allo stesso in termini tradizionali, come semplice spazio geografico, non è possibile cogliere le peculiarità del radicamento mafioso al Nord, ed il significato subdolo dei suoi meccanismi.

Per capire quello che è successo al Nord, è indispensabile allargare la nozione di territorio, quindi, al complesso di affari che configurano la circolazione, l’utilizzo, e il reimpiego del denaro; e quindi, ai luoghi dove è possibile tale movimento.

Il raggio d’azione privilegiato è questo, ma non crea allarme sociale, perché meno visibile, più silenzioso, e, allora, più insidioso ed inquietante.

Le nuove frontiere delle mafie sono l’economia, la finanza, tutte quelle attività nelle quali è possibile far girare denaro in sorprendenti quantità, difficilmente quantificabili.

Da qualche tempo ci si trova nella fase che molti definiscono “la terza dello sviluppo delle mafie al Nord”. Trattandosi di una zona depressa e in via di recessione economica, la Calabria offre scarse e precarie opportunità di remunerazione del capitale: è per questo che le somme precedentemente investite al Sud vengono attualmente impiegate in altri canali di investimento.

Negli anni Ottanta si è fatta così più prepotente la scelta di invadere i mercati e l’economia del Nord: cioè, controllo del nuovo territorio.

Il seme era già stato gettato negli anni Sessanta, epoca in cui incominciarono a verificarsi i primi insediamenti mafiosi; furono stupidamente sottovalutati, non compresi nella loro reale portata.

Non fu chiaro che le Regioni settentrionali non erano soltanto una zona di transito per lo smercio delle sostanze stupefacenti, ma una terra di occupazione, a tempo indefinito.

Gli associati acquistano immobili, alberghi, locali notturni, esercizi commerciali, con denaro contante, in cifre non corrispondenti alla loro categoria professionale.

Sono personaggi che prestano soldi a usura, entrano nelle imprese; quando queste falliscono, la loro proprietà passa a qualcun altro.

Le procedure fallimentari, infatti, sono diventate un nuovo strumento di penetrazione per la ‘Ndrangheta.

Quali dunque, più precisamente, le Regioni colpite ed interessate?

Tutte, si può dire con tranquillità: dalla Lombardia, nella quale Milano ha interpretato il ruolo di centro degli affari accaparrato dalla mala alterativa delle regole di mercato, alla Val d’Aosta, per la quale il Procuratore della Repubblica del Tribunale temeva una caduta d’immagine.

E poi ancora la Liguria, il Piemonte.

C’è da notare che certi atteggiamenti del Nord hanno singolarmente imitato quelli del Sud, forse perché anch’essi trapiantati: ad esempio, quello della necessità di salvare il buon nome e la reputazione di un paese, una città, una provincia.

Una convinzione di tal fatta è diventata una teoria, una cultura, un tipo di “ tecnica di autodifesa”.

La tecnica della salvaguardia del buon nome ha favorito l’espansione della presenza della ‘Ndrangheta in qualunque posto mettesse le radici, determinando una riduzione delle capacità di reazione sociale.

E’ circolata inoltre, nel mondo degli economisti, la cultura del “pecunia non olet”, che ha condotto questi ultimi ad una profonda pigrizia intellettuale.

A far attecchire ancor di più la piaga, è stato il legame venutosi a creare tra piccoli e medi imprenditori del Nord e lavoratori calabresi, impegnati nel campo dell’’edilizia: gli uomini delle ‘ndrine mediavano tale rapporto, avviando al lavoro una manodopera pagata in nero, o, peggio, sottopagata. C’era quindi la corresponsabilità colpevole degli imprenditori del Nord, i quali tenevano solamente al fatto di guadagnare da questa relazione una notevole somma; ma così la collettività pagava un caro prezzo, poiché la mafia cresceva e si moltiplicava.

A metà del ’90, la vecchia pittoresca “famiglia Montalbano” risultava ormai essere l’organizzazione mafiosa dominante e prevalente in tutto il Nord, addirittura scavalcando Cosa Nostra, duramente frenata dalla repressione giudiziaria. Ha mostrato di avere radici più salde e robuste, proprio grazie al trapianto dei nuclei familiari nelle zone settentrionali della Penisola.

E’ l’unica mafia ad avere rapporti con la politica del Nord, come comprovano gli episodi verificatisi in Piemonte, Val d’Aosta, Lombardia, Liguria.

Nell’Aprile del 1995 fu sciolto il comune di Bardonecchia, unica volta dopo quelli meridionali, a causa dell’arresto del sindaco Alessandro Gibello, che avrebbe coadiuvato il mafioso Rocco Lo Presti nel soddisfacimento dei suoi interessi legati ad un complesso residenziale e alberghiero.


 

In giro per il mondo


 

Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, la ‘Ndrangheta oltrepassò i confini nazionali, ed entrò nei traffici stranieri, acquisendo man mano un ruolo sempre più significativo nello scacchiere internazionale.

Si può parlare a volte di passaggi rapidi e fugaci, finalizzati al reperimento di merce illegale; altre volte di insediamenti stabili, “grotte” dentro le quali l’organizzazione opera oramai da tempo.

Sul finire degli anni Ottanta, comincia a cambiare lo scenario internazionale, caduto il muro di Berlino e disgregatosi l’URSS: si aprono nuove possibilità di giri economici, la”fiera dell’Est”.

Dietro i grandi traffici di droga stanno sistemi potenti, ramificati, sempre più sofisticati; si spostano, a volte contemporaneamente, in diverse nazioni europee ed extraeuropee.

Cercano di procurarsi le droghe per commercializzarle, e per gestire finanziariamente l’occultamento ed il reimpiego dei colossali guadagni.

La catena è piuttosto lunga: prima di ogni cosa, bisogna contattare i produttori e i grandi trafficanti, poi trovare delle persone che facciano arrivare la merce con tutti i mezzi possibili (aereo, nave, camions) dal luogo d’origine in Italia, dove alla fine sarà spacciata; ci vogliono corruttori in grado di convincere i controllori delle frontiere a far uscire la droga.

C’è urgenza di persone che scarichino “la roba” e la nascondano nei cosiddetti “imboschi” , e che infine la vendano nelle piazze o davanti alle discoteche; ci sono anche i “cavalli” , gli ultimi anelli della catena, con il compito di raccogliere il denaro e portarlo ai capi, quelli che hanno ideato, organizzato e finanziato tutto il giro.

Ma ancora non è finita: manca il tassello che consentirà alla organizzazione di celare i suoi loschi affari. Quel quadratino viene posto con il riciclaggio, cioè la trasformazione del denaro sporco in moneta fiammante.

La metà degli anni Sessanta aveva già visto le mafie italiane buttarsi a capofitto sul nuovo investimento, seppure in misura non massiccia; ma sarà la fine degli anni Settanta a decretarle prime donne del traffico internazionale di stupefacenti.


 

Alla volta dell’Europa


 

La ‘Ndrangheta ha allungato i suoi tentacoli innanzitutto in Europa, continente ovviamente più vicino e a portata di mano; fra i paesi perlustrati, uno dei maggiormente convolti è stata sicuramente la Francia.

D’altronde, l’arresto di uomini di primo piano quali Domenico Libri e Michele Zaza, aveva dato ai francesi un segnale d’allarme particolarmente preoccupante, confermato dalla relazione finale della Commissione di Bertrand Gallet, che sottolineava la penetrazione nella nazione della criminalità organizzata.

Venivano pure riciclati ed investiti milioni di franchi, fatto ulteriormente sintomatico della nuova aria che aleggiava.

Il Libri è stato uno dei tanti ‘ndranghetisti che in Francia ha trovato rifugio, protezione, e opportunità imprenditoriali; Pino Scriva sarà catturato a Nizza nel 1972, e, evento non irrilevante, perfino “ l’esimio” Paolo De Stefano si affidò alla Repubblica d’Oltralpe.

Secondo il pentito Scriva, “numerosi affiliati alla ‘Ndrangheta si riuniscono periodicamente a Nizza”,27 evidentemente punto di ritrovo sicuro per le loro decisioni.

Altri soci furono catturati in Francia: Renato Macrì, membro della ‘ndrina Ursino, colto in possesso di 63 kg di cocaina acquistata in Brasile; Paolo Sergi, nativo di Platì e residente sempre a Nizza; Bruno Aiello e Giuseppe Calabrò, il cui fratello, Francesco, fu accusato dai francesi di far parte di un vasto traffico di stupefacenti che si snodava tra Italia, Francia e Singapore.

Si potevano trovare uomini d’onore veramente di ogni risma, da Giuseppe Flachi, a un calabrese ed un piemontese appartenenti al gruppo di Giuseppe Carnovale, probabilmente “pesci piccoli”, ma che fecero rivelazioni notevolmente interessanti su certi legami col generale iraniano Ehranollah Pezeshkpour.

Tanti furono i mafiosi di un certo calibro arrestati sul suolo francese: perché la predilezione per questo Stato?

Si può pensare che la Francia avesse il pregio di costituire un valido rifugio per costoro, ma non si terrebbe conto in tal modo del significato tattico e strategico di quei luoghi, i quali permettevano il transito di traffici non trasparenti, e l’approdo di investimenti effettuati con finanziamenti di oscura provenienza.

Risalendo indietro, agli anni Sessanta, all’era delle emigrazioni, molti fuorusciti calabresi avevano esportato “leurs sociétés secrètes”, 28assieme ad un intero stuolo di figli, fratelli, zii e cugini.

I traffici che si svolgevano in Francia erano prevalentemente traffici di droga ed armi.

La cattura di Domenico Libri il 15 Settembre 1992 squilibrò la tranquilla e serena realtà della Francia come porto sicuro degli ‘ndranghetisti.

Passiamo ad altri paesi del vecchio Continente. Anche in Germania, nei primi anni Novanta, cresceva l’allarme per le presenze mafiose italiane: queste, dopo il crollo del muro di Berlino e la riunificazione tedesca, consideravano quel territorio una “zona strategica”,29 soprattutto per la collocazione del denaro sporco.

E’ quindi semplice segnalare alcuni episodi che, nella loro a volte apparente piccolezza, sono invece indicatori di rapporti, contatti o tentativi consistenti di garantire in quel paese un insediamento più stabile e duraturo.

A Rudensberg venne arrestato Luigi Previti di Reggio Calabria, perché stava trasportando un carico di cocaina e di hascisc con la sua macchina; all’aeroporto di Francoforte Francesco Marafioti, di Oppido Mamertina, in quanto trovato in possesso di 3 kg di eroina.

Ancora vive alcune delle ‘ndrine storiche di Africo e di Bova Marina: il loro punto di ritrovo abituale è il ristorante “ La fontana”, gestito da Leo Mollica, prestanome dietro cui si cela il celebre Giuseppe Morabito, “ ‘u tiradrittu”.

Ci sono anche i Mammoliti di San Luca, i quali investono il flusso di denaro frutto del narcotraffico in acquisti di immobili e pubblici esercizi a Duisburg.

Come già praticato in Francia, gli ‘ndranghetisti ebbero lo stesso intento, e cioè quello di posizionare definitivamente propri “locali” nella Repubblica Tedesca, affascinati dalla collocazione geografica e dalla solidità economica della nazione in quegli anni.

Per conto di Giuseppe Mazzaferro, sarebbero giunti in Germania nel 1985 Giuseppe Costa, Rosario Saporito e Salvatore Moscatelli, al fine di inaugurare un nuovo “ locale”.

La peculiarità dei “passatempi” in terra germanica stava nel fatto che lì i calabresi non si limitavano a spacciare la droga, ma fabbricavano pure marchi falsi, per quantità astronomiche.

In anni più vicini a noi, calabresi e siciliani sono stati immessi in un giro senza fiato, che faceva ruotare un fiume di dollari falsi e titoli rubati spediti in mezzo mondo: oltre che in Germania, in Austria, Svizzera, Bulgaria, Russia.

Gli affari sporchi vengono puntualmente travestiti da attività in piena regola; basti andare con la mente a ristoranti, pizzerie, spaghetterie, locali vari, etc. Una modalità comportamentale come questa, prova l’adozione di una scelta operativa tipica dei malavitosi calabresi, che preferisce mettere solide radici per affermare una presenza altrimenti inevitabilmente precaria e transitoria.

Si guardi adesso alla Svizzera. Non è meramente il paese delle banche, dove sono gelosamente custodite sconfinate cifre provenienti da tutto il mondo. C’è un lato poco noto della Svizzera: la sua legislazione consente di acquistare molto facilmente le armi, e ciò ha aperto alla ‘Ndrangheta un mondo forse insperato.

Gli uomini di Mazzaferro trovavano lì armi di tutti i tipi, in gran quantità, mentre anche i Di Giovine si approvvigionavano sul mercato svizzero. In cambio dell’ hascisc, ottenevano degli arsenali, che erano allora necessari alla famiglia Serraino per combattere la guerra contro i De Stefano.

Ultimamente, nuclei della provincia di Catanzaro, pur se di modeste dimensioni e di recente formazione, hanno da tempo largo accesso al mercato svizzero delle sostanze stupefacenti e delle armi, secondo quella che possiamo definire una nuova tendenza.

La situazione in Spagna è ben differente, essendo questa il principale crocevia dei traffici di droghe dal Sud America e dall’Africa.

Nell’Ottobre del 1988, su intervento dell’allora sostituto procuratore della Repubblica di Firenze Silvia Della Monica, furono tratti in arresto alcuni mafiosi reggini, accusati di far parte di un’organizzazione di trafficanti di cocaina.

Purtroppo per la penisola iberica, essa, insieme al Portogallo, fungeva da destinazione abituale dell’hascisc partito dal Marocco; Emilio Di Giovine lo sapeva bene, poiché aveva in passato investito in appartamenti e negozi lungo la Costa del Sol parte del ricavato di quel giro.

Quindi, fu fermato a fine Luglio del 1992 a Faro, in Portogallo, in compagnia di Antonino Palamara; arrestato, e recluso in un supercarcere portoghese. Tentò la fuga, ma fu bloccato dalla polizia locale.

Il Di Giovine aveva diramazioni anche in Inghilterra, uno dei suoi più importanti mercati internazionali. Nell’isola agivano, facendovi pervenire la roba dalla Turchia e dal Pakistan, gli Ursini e i Macrì, con un traffico diretto dal boss emergente Pasquale Marando.


 

Alla fiera dell’Est


 

Pare che il fenomeno della grande criminalità russa abbia una data di nascita: “è dal crollo del regime sovietico, che la Russia assiste ad un’esplosione della grande criminalità”.30

Esplosione non certo improvvisa e non del tutto inattesa, perché dei segni premonitori si erano palesati nell’ultima fase del regime precedente; ma a far data da quell’anno, anche l’ex URSS entrava a tutti gli effetti nel novero dei paesi invasi dalla mafia.

Crollati i regimi comunisti, le condizioni economiche si sono aggravate, determinando scompensi e traumi sociali d’ogni genere. Senza ombra di dubbio, la realtà che si è venuta a creare fra le frontiere dei neo Stati, ha avvantaggiato le mafie internazionali, libere ora di circolare.

Anatolij Grignenko, capo del dipartimento russo per la lotta alla corruzione e al contrabbando, ha amaramente constatato che “ quando le nostre frontiere sono diventate di carta velina, il traffico di droga ha fatto registrare un boom”.31

Le rotte di transito sono mutate: dall’Afghanistan, dal Pakistan e dall’Iran attraversano l’ex URSS, l’Ucraina, l’Ungheria, la Bulgaria, la Polonia e la Cecoslovacchia. “Cracovia e Varsavia sono diventate degli importanti centri di smistamento”.32

Una baraonda di uomini, merci, capitali, dollari e rubli falsi. Come sempre, in questo quadro di inarrestabile dinamismo, non poteva non intromettersi rapidamente il sistema delle malavite italiane ed internazionali, che hanno raggiunto un accordo per assicurare meglio il buon andamento dei giganteschi affari.

Era un periodo molto particolare, nel quale si affacciava il pericolo di saturazione del mercato statunitense ed europeo; quindi, l’apertura di un nuovo accesso, lasciava i narcotrafficanti nella possibilità di estendere le loro attività e il loro spazio “vitale”.

La conquista dei nuovi mercati sembra allontanare per un bel po’ quel rischio.

A metà del 1991, una riunione ha siglato la prima intesa tra mafiosi italo-americani, russi e sudafricani: successivamente, si sono tenuti incontri fra la mafia siciliana e quella russa.

La ‘Ndrangheta è andata anche nell’ex URSS, magari per i soliti riciclaggi, o per stratosferici investimenti in catene di alberghi, casinò e piccole agenzie bancarie di Mosca.

Operazioni di grandi dimensioni, di una portata inimmaginabile, tali da far comprendere le parole di Nicola Gratteri: “ La ‘Ndrangheta e la mafia stanno trasferendo i loro capitali per acquistare letteralmente i paesi dell’Est europeo. La ‘Ndrangheta sta comprando Mosca.” 33

Anche qui, cominciava ad aumentare la circolazione di moneta contraffatta, dal momento in cui le privatizzazioni offrivano occasioni del tutto impensate.

Se si considera tutto l’Est europeo, ritroviamo tracce ‘ndranghetiste in Polonia ed in Bulgaria.

Nel Febbraio del 1994, al confine tra Germania e Polonia, è stato arrestato Carmelo Iamonte, esponente della ‘ndrina di Melito Porto Salvo, e già nel 1990, la polizia bulgara aveva rintracciato collegamenti di pregiudicati calabresi con sequestri di eroina.

Nelle città bulgare gli ‘ndranghetisti impiegavano cospicue somme ricavate dalle attività illecite.


 

Le importanti disposizioni sui collaboratori di giustizia34


 

Il decreto legge 15 Gennaio 1991 n. 8 aveva già precedentemente fissato “ Nuove norme in materia di sequestri di persona a scopo di estorsione e per la protezione dei testimoni di giustizia, nonché per la protezione e il trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia”, e successivamente era stato modificato dalla legge n. 45 del 13 Febbraio 2001, recante mutamenti della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia, nonché disposizioni previste a favore delle persone che prestano testimonianza.

Il comma 4ter del decreto legge n. 306 del 1992 ha previsto che, con separati decreti, il Ministro dell’Interno, di concerto con il Ministro della Giustizia, doveva stabilire anche la quota dei beni sequestrati e confiscati a norma dello stesso decreto, da destinarsi per l’attuazione delle speciali misure di protezione prefigurate dal succitato decreto legge, e per le elargizioni a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata, così come modificato dall’articolo 24 della legge n. 45.

L’articolo 19 comma 1 di quest’ultima ha consentito l’adozione di norme regolamentari anche per disciplinare le modalità per il versamento ed il trasferimento del denaro, dei beni e delle altre utilità indicate dai soggetti sottoposti a misure di protezione.

Dopo più di due anni, il Ministero dell’Interno ha emanato con decreto 24 Luglio 2003 n. 263 (pubblicato in GU n. 216 del 17 Settembre 2003), il regolamento contenente disposizioni attuative degli articoli 19 e 24 della 45/01, e cioè relative al versamento e trasferimento del denaro di provenienza illecita e alla destinazione dei beni mobili, immobili e aziendali, facendo rinvio, per quanto non espressamente disciplinato, alle disposizioni in materia di prevenzione antimafia, così come statuito dalla legge 575/65.

Gli articoli 3 e 4 di questo regolamento riguardano il versamento ed il trasferimento del denaro di provenienza illecita del soggetto a cui sono state applicate le misure di protezione. Questo denaro viene versato presso la competente sezione di tesoreria provinciale dello Stato.

L’articolo 5 prevede che i beni mobili iscritti in pubblici registri possano essere affidati ed assegnati in via definitiva al Dipartimento di Pubblica sicurezza- servizio centrale di protezione, ove ne faccia richiesta per l’impiego nelle proprie attività di istituto.

Le somme ricavate dalla vendita degli altri mobili non registrati, ivi compresi i titoli e i valori mobiliari, oppure non richiesti in affidamento, sono versate direttamente presso la competente sezione di Tesoreria provinciale dello Stato.

Per i beni immobili e aziendali confiscati si prevede lo stesso meccanismo di destinazione a fini istituzionali e sociali disciplinato dalla legge n. 109/96 (in particolare, l’articolo 6 del regolamento stabilisce che, per i beni confiscati, può essere data precedenza alle richieste di utilizzo provenienti dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno per le esigenze del Servizio centrale di protezione).

L’articolo 7 stabilisce, infine, che una quota pari al 60% delle somme derivanti dai beni sequestrati e confiscati ai sensi dell’articolo 12sexies del decreto legge n. 306 del 1992, incrementata dai versamenti del denaro di provenienza illecita del soggetto sotto protezione, è destinata all’attuazione delle speciali misure di protezione dei collaboratori di giustizia. Lo stesso articolo sancisce poi che una quota pari al 15% è altresì destinata alle elargizioni previste dalla legge n. 302 del 1990, in favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.

A tutto questo si può aggiungere che non si è ritenuto di accogliere il suggerimento del Consiglio di Stato di destinare una quota dei proventi derivanti dalle confische disposte ai sensi dello stesso articolo 12sexies del DL 306/92, ai fini dell’alimentazione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso (istituito dalla legge 22 Dicembre 1999 n. 512), in quanto tale destinazione non sembra consentita dalla norma primaria cui il presente decreto dà attuazione, e, per altro verso, finirebbe con l’incidere sulla destinazione di parte di questi proventi all’ONU - Office for Drug Control and Crime Prevention, per il conseguimento delle sue finalità istituzionali, previste dall’articolo 145 comma 64 della legge finanziaria 23/12/2000 n. 388.


 

L’incompiuta idea di un Testo Unico in materia di aggressione ai

patrimoni di mafia35


 

Da tutto quanto si è esposto sino ad ora, si comprende che diventa, oggi più che mai, sempre più urgente la definizione di un Testo Unico relativamente all’aggressione ai patrimoni di mafia, richiesto numerose volte anche dalla Direzione Nazionale Antimafia, per portare ad una razionalizzazione della produzione legislativa in materia di sequestro e confisca, e soprattutto di gestione e destinazione dei beni sottratti alle organizzazioni criminali.

E’ infatti necessario garantire, altresì, una chiarezza normativa e una trasparenza nella amministrazione, e in special modo nella strumentalizzazione delle somme ricavate dalla vendita dei beni mobili e aziendali.

La legge n. 109/96 contemplava la raccolta di queste risorse da parte delle prefetture, in un fondo destinato a finanziare i progetti di riutilizzo dei beni a fini sociali, nonché a finanziare progetti dedicati all’educazione alla legalità o ad interventi sociali. Risorse indispensabili per assicurare una piena ed efficace applicazione della legge stessa.

Ma la realtà dei fatti è che questi fondi sono stati istituiti da pochissime prefetture, ed oggi ci ritroviamo non solo senza queste risorse, ma viene previsto che le somme confiscate ed i proventi ricavati dalle vendite giudiziarie dei beni mobili e (in contrasto con la 109/96) immobili, siano finalizzate ad altri scopi, che, seppur meritori, tolgono le risorse ai progetti di riutilizzo a fini sociali.

Una vera e credibile politica legislativa antimafia necessita quindi di un intervento normativo altrettanto forte ed urgente. La lotta ai patrimoni di mafia non può più permettersi un legiferare confuso ed ambiguo.

A tal proposito, il 23 Dicembre 2003, il Consiglio dei Ministri ha deciso di non prorogare il Commissario Straordinario per la gestione e destinazione dei beni confiscati alle mafie.

Questo provvedimento ha smantellato un ufficio e una struttura che funzionava, senza prevedere, fin da subito e in sua sostituzione, il passaggio delle sue funzioni a personale specializzato e adeguatamente formato.

L’abolizione della figura del Commissario Straordinario ha aperto, pertanto, una nuova fase di attenzione intorno alle vicende relative ai beni confiscati alle varie mafie.

Infatti, si è riaperta la discussione su di una modifica della legge 109/96, che ha portato all’approvazione di un disegno di legge delega di riordino di tutta la materia, dalla fase del sequestro a quella della confisca, fino alla destinazione dei beni.

Diverse erano state negli anni scorsi le proposte in Parlamento presentate dai vari gruppi politici.

Importante, a tal riguardo, è stata quella elaborata da un’apposita commissione di studi istituita presso l’ufficio del Commissario stesso, e che teneva conto delle tante esigenze emerse dal lavoro di coordinamento e monitoraggio dei procedimenti di assegnazione e destinazione dei beni.

Questa proposta, intitolata “ Modifiche e integrazioni alle procedure amministrative e alla normativa disciplinante la destinazione e la gestione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali”, è stata presentata pubblicamente in un seminario di studi organizzato in Roma, nell’Ottobre 2002.

Approvato a fine Settembre dello stesso anno dal Consiglio dei Ministri, il nuovo disegno di legge delega il governo a provvedere al riordino della disciplina sopra riportata.

Quella che sembra riemergere è una riforma complessiva della materia, la quale senza dubbio tiene conto di un’esigenza di miglioramento e snellimento delle procedure di gestione e assegnazione –sin dal momento del sequestro sino al riutilizzo a fini sociali - ma che pone anche forti interrogativi e perplessità su alcuni punti.

In primo luogo, la previsione di un ruolo centrale da parte dell’Agenzia del Demanio (che si dovrebbe avvalere di una struttura appositamente dedicata e articolata a livello centrale e periferico, e di funzionari che andrebbero a sostituire le funzioni degli attuali amministratori giudiziari), richiede un significativo incremento di organici, insieme ad una forte specializzazione degli stessi.

L’estensione dei soggetti possibili destinatari dei beni confiscati (Regioni, Enti locali e loro Consorzi) non deve, altresì, far venire meno il ruolo fondamentale svolto in questi anni dal mondo dell’associazionismo e della cooperazione sociale nei progetti di riutilizzo a fini di sviluppo economico e sociale dei beni immobili confiscati.

Occorre certamente, inoltre, porre dei paletti alla prevista possibilità di una revisione dei provvedimenti definitivi di confisca dei beni sottoposti alla medesima, intervenendo in maniera più precisa in questi casi.

Il nuovo disegno di legge delega è stato dunque assegnato in Commissione giustizia della Camera dei Deputati in data 8 Novembre 2004, e a Gennaio 2005 ha iniziato ad essere discusso, insieme ai disegni presentati dagli on. Lumia ed Ascierto. In realtà, non c’è stata alcuna possibilità di un confronto serio e approfondito, tanto che il 10 Maggio dello stesso anno, dopo tre sole riunioni in Commissione, oltre all’Audizione del Presidente dei dottori commercialisti, è scaduto il termine per la presentazione degli emendamenti.

Da non dimenticare poi, a livello penitenziario, il celeberrimo articolo 41bis della legge 26 Luglio 1975, n. 354, recante per l’appunto “ Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”.

Il secondo comma del 41bis si applica anche ai detenuti per delitti di associazione di tipo mafioso: “ Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’Interno, il Ministro di Grazia e Giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell’articolo 4bis (del medesimo ordinamento Penitenziario), l’applica-zione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge, che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.


 

Dalle leggi alle azioni delle Forze dell’Ordine: alcuni esempi di attività

di contrasto36


 

Su di un piano pratico, è interessante adesso verificare come gli addetti alla lotta antimafia abbiano tentato di applicare tutta la folta normativa in materia, attraverso operazioni di vario genere.

Innanzitutto, con la legge istitutiva della DIA, cioè della Direzione Investigativa Antimafia ( d.l. 29 Ottobre 1991, n. 345, convertito con legge n. 410 del 30 Dicembre 1991), il legislatore ha inteso creare nell’ambito del Dipartimento di Pubblica Sicurezza un organismo avente la peculiare organizzazione per analizzare, in forma coordinata, i fenomeni della criminalità organizzata, e contrastare, con proprie indagini di polizia giudiziaria, ogni manifestazione delittuosa derivante, o comunque connessa, ad associazioni di stampo malavitoso.

Scopo principale della DIA è quindi quello di ricercare, attraverso l’investigazione preventiva, i contorni strutturali ed operativi della criminalità organizzata, delineandone i settori di prevedibile aggressione, per indirizzare tempestivamente le possibili attività di prevenzione e di contrasto operativo.

Prendiamo a riferimento un semestre, periodizzazione in cui si articola effettivamente l’insieme di iniziative di questa istituzione: ad esempio, partiamo dal primo semestre del 1998, durante il quale la DIA ha effettuato sequestri di beni nei confronti della ‘Ndrangheta per un valore complessivo pari a 7.600.000.000 di Lire, e confische per un totale di 10.000.000.000 di Lire.

Sono stati poi emessi nello stesso ciclo di riferimento 14 ordini di custodia cautelare, mentre i sequestri di beni a seguito di attività giudiziaria, e non in quanto misura preventiva, ammontavano a 35.000.000.000 di Lire.

Nel 1998 è stata portata a termine anche un’importante operazione: la “ Larice 2”, che trae origine dall’omonima operazione “ Larice” risalente al mese di Gennaio del 1995, finalizzata a fare luce sulle illecite attività poste in essere dalla cosca Labate di Reggio Calabria.

E così, nei semestri successivi, la Direzione ha scrupolosamente relazionato su ogni provvedimento adottato dall’autorità giurisdizionale da essa posto in esecuzione, destinato a reprimere soprattutto economicamente la superiorità mafiosa, e in alcuni casi anche individualmente, per mezzo di ordini di custodia cautelare in carcere.

L’elenco è piuttosto lungo e sistematico nella sua ripetitività, ragion per cui si è preferito non riportare una annotazione completa che potrebbe giustamente far disamorare il lettore…

Quel che è certo, è che tale organo ha sin dalla nascita svolto un ruolo primario nell’importante funzione investigativa applicata alla criminalità di tipo malavitoso, necessaria per cominciare a sondare profondamente le connotazioni strutturali, le articolazioni, i collegamenti interni ed internazionali di tutte le varie organizzazioni, gli obiettivi e le modalità operative, nonché ogni altra forma di manifestazione delittuosa alle stesse riconducibili, ivi compreso il fenomeno delle estorsioni. (“Sociologia criminale”, Comando generale A dei CC, 1999, pg.328).


 

Breve storia del movimento antimafia37


 

Sulla scia dei grandi delitti degli anni ’80 in Sicilia, nacque nel 1984 il Centro Impastato, il quale diede vita al coordinamento antimafia, che coinvolgeva 38 organizzazioni; di fatto 19 di esse non avrebbero partecipato a nessuna riunione.

I problemi erano diversi: coordinare realtà eterogenee, gestire la precarietà di associazioni, nate spesso sulla scia dell’ emozione per i grandi delitti, che altrettanto frequentemente ebbero vita breve, trovare una via unitaria rispetto alle forze politiche e sociali. La strada del Coordinamento fu spesso autonoma e alternativa rispetto a quella delle manifestazioni ufficiali, rispetto alle caute iniziative della Curia, del PCI, e della ACLI (associazioni cristiane lavoratori italiani): il Coordinamento si troverà solo nella preparazione di un Dossier su Salvo Lima.

Le riunioni vennero disertate, anche in vista del maxiprocesso, e il movimento si rese così sempre più isolato e precario.

Nel frattempo, nell’Aprile del 1993 venne approvata a larga maggioranza la Commissione Antimafia.

Infatti, dopo i tragici attentati ai danni dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, tutta la Nazione si mobilitò in senso combattivo contro ogni forma di criminalità organizzata, di qualsiasi provenienza geografica fosse. Nacquero movimenti, associazioni, manifestazioni, fiaccolate.

Essi tuttavia si mossero per lo più in un’ottica emozionale ed emergenziale, e nella gran parte dei casi la loro vita fu breve, essendo poche le associazioni che si dirigevano verso un’area sociale, promuovendo documentazione, informazione, ed educazione alla legalità.

Le nuove leggi del 1992 prevedevano dunque provvedimenti per i collaboratori di giustizia, ed il carcere duro da applicare ai detenuti per delitti di associazione di stampo mafioso, istituzionalizzato dal famoso articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario attuale.

Inoltre, autorizzavano il ricorso alle forze armate in Sicilia, tramite l’ideazione di un’operazione denominata “ Vespri siciliani”.

Grazie allo sprone del giudice Falcone, nel 1992 ebbe origine la DNA (Direzione Nazionale Antimafia).

Per quanto concerne la ‘Ndrangheta in particolare, non bisogna dimenticare il recentissimo movimento locale dei ragazzi di Locri sorto dopo l’assassinio del Vicepresidente del Consiglio Regionale Francesco Fortugno, avvenuto il 16 Ottobre 2005, contraddistinto dallo slogan “ E adesso ammazzateci tutti”, da cui è stato tratto il nome della corrispondente associazione.


 

Considerazioni conclusive


 

La ‘Ndrangheta è tuttora una sgradevole realtà, che a questo punto il lettore avrà imparato a riconoscere come forse la più ferina e intransigente delle sue cugine meridionali, e la meno intaccata dalle imprese di duro attacco delle Autorità a ciò preposte.

Quello che sorprende di essa consiste proprio maggiormente nella sua capacità di rinnovarsi con un “moto perpetuo”, senza sosta, camaleonticamente, in tal modo modellandosi sulle continue trasformazioni sociali, pur mantenendo però di fondo una stessa originaria struttura, e le tanto amate usanze rituali.

Negli ultimi decenni, ha raggiunto un tale livello affaristico-imprenditoriale, da sorpassare persino la mafia siciliana in scaltrezza e arricchimenti; ha dimostrato di sapersi perfezionare bene nell’uso degli strumenti finanziari, e di quelli tecnologici-informatici, diventati oramai il “pane quotidiano” di cui si nutre ogni giorno.

L’impermeabilità e l’impenetrabilità che la caratterizzano scaturiscono innanzitutto dalla natura familistica del legame mafioso calabrese, per il quale ciascun affiliato è puntualmente parente di un altro.

Immancabilmente, tale vincolo costituisce un fattore di condizionamento psicologico nel rapporto reciproco tra associati, e tra essi e il mondo esterno, talmente forti da far diventare per lo ‘ndranghetista il mezzo del pentitismo un’ipotesi quasi inconcepibile.

Il numero di collaboratori di giustizia calabresi, infatti, rispetto a quello dei pentiti siciliani, è notevolmente esiguo.

Questa la prima grande differenza con Cosa Nostra, e questa l’arma vincente della mafia calabra, dotata di una maggiore protezione interna, perciò non incorsa nel periodo critico attraversato dalla mafia all’epoca del maxiprocesso di Palermo.

Un altro tratto distintivo della suddetta associazione, che l’ha ulteriormente rafforzata, si può intravedere nella “politicizzazione” dei suoi membri, ovverosia nell’avvenuta infiltrazione degli stessi nell’Amministrazione locale di parecchi comuni della Regione, per il tramite di regolari elezioni.

Si può facilmente comprendere la portata di un tale status quo, se si considera il potere intimamente connaturato alla carica istituzionale, come la possibilità di controllare e manipolare internamente le amministrazioni.

Alla luce di quanto abbiamo espresso, ci viene spontaneo allora esternare tutta la nostra perplessità sulla situazione attuale, per la quale non vengono richiesti particolari requisiti per accedere a funzioni pubbliche, contrariamente a quanto giustamente previsto in riguardo alle Forze Armate.

Un’altra tipica espressione della Onorata, precedentemente rilevata nel corso del presente saggio, è la sopravvivenza dei conflitti interfamiliari, le cosiddette “faide”.

Simili alla “disamistade” sarda (famosa quella tra i Succu ed i Corraine), ed a quelle che insanguinano certe zone dell’Albania, della Turchia e di alcune isole greche, queste faide sono spesso scatenate da futili motivi, finendo poi quasi sempre per precipitare in guerre all’ultimo sangue.

La catena di vendette, ancora oggi, in alcuni centri della Calabria, mantiene in vita un piccolo esercito di fuggiaschi, colpevoli in base al codice penale, ma perfettamente legittimati dal codice d’onore, applicato fedelmente dai “soldati” dell’organizzazione.

Un non trascurabile elemento di specificità è rappresentato inoltre dal ruolo rivestito dalle donne, non più oscure e dimesse compagne di capibastone e picciotti, ma, come succedeva sul finire dell’Ottocento nel circondario di Palmi, “spalle” dei loro uomini, pienamente coinvolte negli affari della famiglia.

Esse, come hanno accertato le più recenti indagini sulle principali cosche calabresi, “vigilano sull’andamento delle estorsioni, riscuotono le tangenti, sono intestatarie di beni appartenenti al sodalizio, curano i rapporti con i latitanti e con l’esterno del carcere, e forniscono il supporto logistico nelle azioni criminali compiute dai maschi dei clan”.

Non bisogna poi dimenticare il radicato controllo economico e territoriale

esercitato dalle ‘ndrine a livello locale, probabilmente più intenso di quello

su scala internazionale.

Ogni famiglia così concepita, come una neoplasia in crescita, tende a conseguire margini di dominio sempre più vasti su tutte le componenti della società, attraverso l’acquisizione, la gestione, la conservazione del potere illecito.

C’è però qualcosa che le ‘ndrine non sono ancora riuscite a fare: creare un efficace meccanismo di regolazione dei conflitti interni. Manca infatti una “commissione” capace di mediare gli endemici contrasti, anche se, stando a recenti inchieste, in seno all’organizzazione, si sarebbe determinato, più che istituito, un organismo, di cui farebbero parte i rappresentanti delle famiglie più importanti, che si occuperebbe dell’attribuzione di questo o quell’affare.

Qualcosa, insomma, sta cambiando, anche se lontani sembrano essere gli equilibri di limitazione della conflittualità vigenti nella mafia siciliana.

Al giorno d’oggi, la ‘Ndrangheta detiene il monopolio della cocaina in Europa, e condivide il potere assoluto in proposito con i narcotrafficanti colombiani. E’invischiata nella politica, nella massoneria, negli interessi delle imprese di tutto il mondo.

Inoltre, in Calabria, la scena criminale è segnata dalla crescita del fenomeno estorsivo ed usuraio, nonché da un inasprimento della pressione intimidatoria nei confronti dei governi locali. Le ‘ndrine, attente a scoraggiare forme di collaborazione con la giustizia, restano particolarmente impegnate nel traffico di stupefacenti ed armi, e continuano ad evidenziare l’intento di inserirsi nelle svariate attività imprenditoriali e soprattutto negli appalti di grandi lavori.

Sotto quest’aspetto, avevano già programmato di esercitare una speciale vigilanza sugli investimenti predisposti per la realizzazione di grandi opere pubbliche – come il ponte sullo Stretto di Messina – sia per quanto concerne progetti a lungo termine, sia per gli interventi a medio termine nel campo dei trasporti e delle infrastrutture.

L’innalzamento del livello di scontro tra clan registrato nel Reggino potrebbe sottendere una rottura della “pax mafiosa”, ed un tentativo di riassetto degli equilibri, analogamente a quanto aviiene nelle aree di Catanzaro, Cosenza e Crotone, ove l’azione informativa ha evidenziato l’acuirsi delle tensioni interclaniche, e tentativi di espansione di alcune cosche, mentre, nel comprensorio di Vibo Valentia, la locale criminalità va consolidando l’egemonia nel settore del narcotraffico e nell’infiltrazione negli appalti.

La provincia di Reggio rimane ancora la roccaforte indiscussa dei sequestri di persona, per quanto notevolmente ridotti rispetto al passato; gli ambienti bancari, le assicurazioni, la finanza non hanno per essa più confini.

I rapporti, pur variegati, fra ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra, sono assai consistenti, nei vari ambiti manageriali.

Certamente, in questi ultimi anni, la criminalità organizzata di stampo calabrese ha assunto i caratteri di una multinazionale del crimine, con un potere fortissimo.

Chiudo qui questa trattazione, lasciando a quello stesso paziente lettore che ha iniziato a scorrere le righe di questo libro un mio personale messaggio di speranza nella definitiva, seppur so bene utopica, morte di una delle tante, troppe tristi piaghe sociali italiane.


 


 


 


 

1 Martino Paolo, “Storia della parola ‘Ndrangheta” in AA.VV. “Le ragioni della Mafia”, Ed.Jaca Book, Milano, 1983, pg.124

2 Di Bella Saverio, “’Ndrangheta: la setta del disonore”, Ed.Pellegini Cosenza, 1989, pg.8.

3 Gambino Sharo “ Vi racconto la Mafia”, Ed. Mapogra,f Vibo Valentia, 1993, pg.21

4 Alvaro Corrado, “Un treno nel Sud”

5 Falcionelli A. “Le societes Secretes Italiennes”, Paris, 1936, pg.153.

6 Malafarina Luigi “La ‘Ndrangheta: il codice segreto, la storia, i miti, i riti e i personaggi”, Ed. Casa del libro, Reggio Calabria 1986, pg.79.


7 Gambino Sharo, “La mafia in Calabria”, Ed. Parallelo 38, Reggio Calabria, 1971.

8 Alvaro Corrado, “La fibbia”, Corriere della Sera, 17 Settembre 1955.

9 Meligrana Mariano, “Sull’origine e sulla funzione sociale della Mafia”, pg.42.

10 Lombardi Satriani L.M. “Menzogne e verità nella cultura contadina del sud”, Ed.Guida, Napoli, 1974, pg.278.

11 Zagnoli Nello, “A proposito di onorata società”, in AA.VV., “Le ragioni della Mafia”, Jaca Book, 1983, pg.69.

12 Sutherland, Cressey, “Criminology”, 8° edizione, 1970.

13 Cloward R.A. ed Ohlin L.E., “Teorie delle bande delinquenti in America”, Laterza-Bari, 1968.

14 Cappelli Vittorio “Politica e politici”, in “La Calabria”, Ed. Einaudi, Torino, 1985, pg.505.

15 Fianchetti L. “Condizioni economiche ed amministrazione delle Provincie Napoletane. Appunti di viaggio”, Ed. Laterza Roma – Bari, 1985, pg. 237.

16 Relazione al Ministero dell’ Interno Gab. 1953-56, Archivio Centrale di Stato, b.4 fasc. 1066/1-2

17 Relazione al Ministero dell’Interno, Gab. 1957-60 Archivio Centarle di Stato, b. 183, fasc. 15101/66.

18 Arlacchi Pino “La mafia imprenditrice”, Ed. Il Mulino, Bologna, 1983.

19 Barrese Orazio “Da guardiania a industria del crimine”, Questa Calabria, n.1 - 28 Febbraio 1976.

20 Cordova A. – Tribunale di Reggio Calabria, Ordinanza di rinvio a giudizio contro De Stefano Paolo + 59, 1978, pg. 22-23.

21 Macrì Vincenzo “Reato associativo, misure di prevenzione e professionalità del Giudice”, in “Mafia, ‘Ndrangheta e Camorra”, Ed. Angeli-Milano, 1983.

22 Scriva Pino, Corte di appello di Catanzaro, Trovato, Mancuso Francesco + 93, pg.151, anno 1986.

23 Morabito Saverio, GIP di Milano, Piffer, Agil Fuat + 164, pg.307, 1993.

24 Mounier Salvatore, “Trattato del carattere”, Roma, 1978, pg. 78.

25 Relazione al Ministero dell’Interno, Gab. 1957/60, b. 183, fasc. 15101/66.

26 Relazione al Ministero dell’Interno, Gab. 1957/60, b. 183, fasc. 15101/66.


27 Operazione Olimpia, pg. 368.

28 Ulrich C. “Main basse sur l’Europe”, “L’evenement du jeudi”, 10 febbraio 1993.

29 Rouard D. “I nuovi orizzonti della mafia”, Le Monde, 28 gennaio 1993.

30 Fituni Leonid, “Mosca, Palermo, Bogotà: l’arrembaggio delle mafie unite”, Narcomafie, n. 8a, 1 novembre 1993.

31 Vasile V. “La droga russa conquista i mercati”, L’Unità, 18 febbraio 1993.

32 Fituni L. “op.cit”.

33 Turi “Gli uomini della ‘Ndrangheta stanno comprando Mosca”.

34 MD e L, “op.cit”, pg. 277-278.

35 MD e L, “op.cit”, pg. 278-281.

36 Relazioni semestrali della DIA, 1998-2006.

37 Altervista Antimafia.


Data di creazione: 01/07/2012 @ 00:25
Ultima modifica: 01/07/2012 @ 00:42
Categoria: 8) Saggi e Recensioni


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