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8) Saggi e Recensioni - L'HAIKU QUESTO SCONOSCIUTO di Raimondo Venturiello
L’HAIKU, QUESTO SCONOSCIUTO: IMPARIAMO A CONOSCERLO (*)
di Raimondo Venturiello
Tradizioni letterarie e poetiche in Giappone
Lo stile poetico giapponese si caratterizza per l’estrema semplicità espressiva che, se comporta il rischio dell’ambiguità, ha però il pregio dell’allusività, tipico della poesia di ogni tempo e latitudine. Sono spesso omesse parti del discorso, quando implicite, ed a volte anche contenuto, soggetto o azione dipendono dalla sola evidenza del contesto.
A parte tali difficoltà riguardanti soprattutto gli stranieri, la letterarietà nipponica ha aspetti degni di nota che, per di più, la preservano dall’usura del tempo: l’impronta fortemente soggettiva ed il tono più emozionale che intellettuale o sapienziale.
Nella lingua “pura”, non contaminata dall’influenza cinese, sono pochi i termini di natura astratta. Come l’inglese originario acquisì dalle lingue continentali parole quali giustizia, moralità, onestà, ecc., il giapponese le derivò dal pensiero confuciano.
Verso l’anno 1000, consolidatisi i codici linguistici “autoctoni” per affrancarsi dal dominio culturale cinese, il poeta del Sol Levante che intendesse trattare temi non emozionali poteva farlo solo in cinese, lingua “dotta” d’Oriente il cui ruolo fu analogo a quello del latino anche dopo l’affermazione delle lingue europee nazionali.
Nel definire la loro identità linguistica, i letterati giapponesi si convinsero che in poesia l’obiettivo di un lessico in grado di dare voce ai moti dell’animo, con ogni sfumatura, fosse da privilegiare rispetto alla ricerca tesa ad esprimere contenuti intellettuali. Va detto che all’orientamento contribuirono anche fattori strutturali intrinseci alla lingua, priva sia di ritmi tonici o quantitativi sia di rime significative.
Dal punto di vista formale, la poesia nipponica si è sempre distinta dalla prosa per l’alternarsi di versi di cinque e/o sette sillabe. È una costante millenaria dovuta, oltre che alla struttura della lingua, anche, e soprattutto, alla “forma mentis” nipponica, intuitiva ed emotiva secondo i canoni “zen” e, quindi, poco aristotelica o cartesiana.
Altri elementi formali sono: il “kire” o parola-cesura (“ya” all’interno del verso e “yo”, “kamo” o “kana” all’inizio o alla fine) il cui equivalente può essere espresso in italiano o altre lingue dal trattino e/o dai due punti; il “kigo”, dato da un qualsiasi riferimento alla stagione ispirativa (flora, fauna o natura in genere, ma anche ricorrenze popolari o religiose); lo “shoryaku” (omissione), che è un salto logico, sintattico o grammaticale che stimoli la fantasia, la reazione e la compartecipazione del lettore.
Dal punto di vista sostanziale, l’aspetto di fondo è l’intensità poetica, che l’estetica giapponese spiega con i due concetti-chiave, peraltro di non agevole definizione, del “sabi” e del “wabi”. Sul “sabi” Kyorai (allievo di Basho e massimo teorico dell’haiku) affermò che è “il colore del verso”, alludendo ad un “quid” da intendere come fattore di equilibrio dell’atmosfera poetica, che non deve essere né troppo grigia né troppo chiassosa, ma riflesso di un ambiente monocromatico. Il “wabi” indica il requisito di una interiore attitudine alla quiete per cogliere la lineare bellezza delle cose semplici.
La poetica “haiku”
La struttura originaria fu il “tanka” (poesia breve), una sequenza di cinque versi di 5-7-5-7-7 sillabe. Con il tempo il “tanka” divenne “renga” (poesia a catena) scindendosi – secondo le consuetudini cortigiane di una sorta di “passaparola” poetico – in due strofe: la prima (“kami-no-ku”) di 5-7-5 sillabe e la seconda (“shimo-no-ku”) di 7-7 sillabe.
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(*) Il saggio è stato pubblicato tra il 2005 e il 2006: sulla Rivista bimestrale “Voce Romana” (allora diretta dal compianto Giorgio Carpaneto), sulla Rivista quadrimestrale “Poeti e Poesia” (diretta da Elio Pecora) e sul Sito web apostrofo.com (ora inattivo).
Tra l’XI e il XII sec. il renga ebbe massima fioritura, ma successivamente decadde nei contenuti, facendosi “leggera”, umoristica e persino triviale.
Nella seconda metà del 1600 con Basho la prima strofa del renga divenne autonoma forma poetica, da lui detta “haikai” e che Shiki, suo rinnovatore, nella seconda metà dell’800 ridenominò “haiku”.
L’accennata “forma mentis” nipponica, basata sul pensiero “zen”, fa sì che tra poesia e filosofia l’intersezione sia talmente ampia da tendere all’unione. I giapponesi non amano né scrivere né leggere trattati filosofici sull’essere/divenire. Basta un haiku ad illuminare la loro mente sul binomio “fueki/ryuko”: impermanenza/eternità.
Nell’introduzione a “Il muschio e la rugiada – Antologia di poesia giapponese”, a cura di Mario Riccò e Paolo Lagazzi (Rizzoli, Milano 1996), quest’ultimo afferma: “Solo nel fondo del simbolico sta, per i giapponesi, la possibilità del vero: solo all’estremo di sottigliezza della parola o del dialogo può balenare, secondo loro, la verità irriducibile delle cose, o del silenzio stesso”. Infatti “le arti occupano, nella cultura nipponica, lo stesso ruolo occupato in quella occidentale dalla filosofia. Negato al pensiero astratto, lo spirito giapponese si esprime e si cerca nell’intuitivo e nel ‘concreto’, e soprattutto alla poesia è giunto a porre le domande più radicali sul mistero dell’esserci”. E rileva: nella “brevità epigrafica, fulminante dello haiku, (…) il bisogno di essenzialità dello spirito giapponese arriva subito a riconoscersi in termini di logica formale, in una sigla immaginativa e stilistica tessuta su pochi (anche se non pochissimi) accordi”. L’ulteriore puntualizzazione di Lagazzi è che “nessun aspetto della natura e del reale – neanche il più, in apparenza, insignificante – è indegno d’attenzione (…): in ogni cosa, in ogni forma, in ogni istante è l’energia vitale a offrirsi e a svelarsi quando la mente (…) si piega a captarne le pulsazioni profonde”. Così si giunge a “dilatare la scena fino a una misura cosmica: da fare di un istante una forma dell’eterno”.
Nella presentazione di “Cento haiku”, a cura di Irene Iarocci (Guanda, Parma 1997), Andrea Zanzotto nota sia “la freschezza unica dello haiku nelle sua quasi preculturale fisicità di struttura scandita su un primordiale bioritmo”, sia “il valore di una sensazione carica di intuizioni, di un percepire illuminante per fini contrasti cromatici e logici”; osserva che “ogni volta, nelle sue possibilità di variazione, prepara il terreno a una combinazione sfuggente, ‘tangenziale’, di sorprese e contenuti fremiti (…) come lo sfarfallio di un logos”; e straordinariamente conclude che “il benefico trascorrere degli haiku, a sciami o isolati, nel nostro campo psichico oggi più che mai dà segnali di libertà contro le fetide mostrificazioni e le anchilosi – della natura, dell’uomo nel suo stesso sentire e percepire – che sono tanta parte della realtà attuale”.
Nell’introduzione di “Haiku – Il fiore della poesia giapponese da Basho all’Ottocento” (A. Mondadori, Milano 1998), la sua curatrice Elena Dal Pra sottolinea: “così, come l’haiku è lo spazio piccolo di una conchiglia in cui sentiamo il rumore del mare, il poeta diviene un’arpa eolica che ‘si lascia suonare’ (…) e ci ricorda appunto il ‘satori’, l’illuminazione religiosa in uno spazio diverso da quello della conoscenza progressiva, logica, razionale, in uno spazio che non deve essere contaminato nemmeno dall’emozione personale”. Ne conclude: che “l’haiku è il coagularsi di una intuizione estetica possibile solo quando il soggetto, dopo un lungo apprendistato, riesce a scomparire d’un tratto per lasciare posto all’oggetto, all’evento”; inoltre che “quest’espressione immediata e disinteressata non descrive, non declama, non giudica e non spiega, ma solamente presenta un’immagine” perché “è una poesia non di idee ma di cose (…) come un frutto maturo assolutamente compiuto che il poeta spicca da sé”.
Nell’avvertenza all’antologia citata, Elena Dal Pra chiarisce importanti aspetti sul numero di sillabe dell’haiku poiché “il computo delle sillabe segue regole diverse dalle nostre: esso corrisponde infatti al computo degli ‘onji’, ossia dei segni grafici dell’alfabeto nipponico” con i loro suoni e, tenendo ben presente che in giapponese “non esistono dittonghi, per cui le vocali accostate sono sempre da considerare come singoli ‘onji’ (…), la misura classica dell’haiku è propriamente di 17 onji”.
L’osservazione è di particolare rilievo a fronte della ricorrente pretesa che le diciassette sillabe di un haiku “all’italiana” possano essere la somma di un quinario più un settenario più un altro quinario, le cui misure metriche si basano su accenti (di parole anche sdrucciole) e su toni misti a figure (quali la dialefe) che porterebbero il numero effettivo di sillabe anche oltre il limite canonico di diciassette.
Considerazioni conclusive sull’haiku: quali requisiti e che uso farne
Si può essere motivatamente perplessi sull’“importazione” della poetica haiku, tipico prodotto “made in Japan” intriso di una tradizione letteraria e di un contesto culturale che non sono semplicisticamente trapiantabili altrove.
La risposta che chi scrive dà è che non si tratta (è il caso di dirlo!) di “rifare il verso” alla poesia nipponica ma di accoglierne la sfida implicita negli aspetti strutturali e di contenuto, assimilare lo spirito della poetica haiku con tutte le sue rigidità (che sono proprio le regole del gioco della sfida) e integrarla nel clima della cultura occidentale
Per farlo occorre essere disposti, se non già predisposti, a sintonizzarsi esteticamente su ritmi tenui e smorzati, privi cioè di asperità, strappi e ridondanze che tendono ad offuscare l’essenzialità o stemperare l’efficacia comunicativa.
A questi fini la “formula” haiku, nella sua configurazione minimale, non solo esalta la fruizione del messaggio ma anche, e soprattutto, offre al lettore ulteriori possibilità di interagire con il testo e con la molteplicità di componenti extra-testuali affioranti tra le righe o allusivamente in esse celate. Si può così – per questa via e da quel minimo di quantità – giungere al massimo, in qualità, dell’ipersegno poetico.
Al di là di queste considerazioni estetiche e delle precedenti sulla “trapiantabilità” del particolare genere letterario, è comunque sostenibile l’ipotesi che la frequentazione dell’haiku – anche soltanto come esercizio di stile – sia assai utile, alle condizioni e per i motivi che seguono.
Sulle ragioni che rendono consigliabile praticare l’haiku, basti pensare che l’esercizio è tanto più utile quanto più si riscontrano esiti poetici (spesso putativi) affievoliti da iperaggettivazioni, ipersinonimie, molteplici ridondanze o approssimatività lessicali e quant'altro annacqui o distorca il senso del testo (o almeno quello che si vorrebbe fosse). Entrare con impegno nella "gabbia" dell'haiku è da ritenere modo efficace per fare ricerca, o officina o laboratorio, da parte di chi tende a vers(ific)arsi addosso.
Sulle condizioni da rispettare, nel ripercorrere in breve le rigidità formali e strutturali dell’haiku è agevole trarne indicazioni risolutive sui suoi requisiti irrinunciabili:
Si riportano di seguito:
Matsuo Basho: il “padre” dell’haiku
Matsuo Basho, nacque a Ueno nel 1644 da una famiglia di samurai; morto il padre, grazie all’amicizia con il figlio del signore locale, divenne allievo di Kitamura Kigin, famoso letterato e poeta dell’epoca abbandonando la carriera di samurai. Trasferitosi a Edo (antico nome di Tokyo), nel 1677 creò una sua scuola, nel cui giardino l’albero di banano (basho) gli suggerì lo pseudonimo che da allora in poi sostituì il suo vero cognome Tosei.
Avvicinatosi al buddismo zen, gli studi religiosi lo spinsero – anche a seguito dell’incendio del 1682 che devastò Edo e la sua casa – a lunghe peregrinazioni a piedi per approfondire la poesia calcando le tracce di poeti del passato, visitando templi e incontrando poeti suoi contemporanei: il tutto in una povertà di tipo francescano.
Al termine del suo viaggio ad Osaka, prematuramente invecchiato e logorato nel fisico, fu stroncato nel 1694 da una febbre violenta e sepolto, come da sua volontà, presso un tempio buddista sul lago biwa. Uno dei suoi oltre duemila seguaci, Kikaku, raccolse l’opera di Basho in sette antologie.
Scrive Elena Dal Pra (in “Haiku – Il fiore della poesia giapponese da Basho all’Ottocento”, cit.): “La natura verso la quale insegna a tornare non è quella delle convenzioni letterarie: è la natura reale, compagna delle lunghe peregrinazioni durante le quali (…) entra nella sua poesia, nelle sue manifestazioni più infinitesimali e anche in quelle meno adatte a essere cantate, così che troviamo haiku nei quali compaiono i pidocchi, lo sterco, o erbe umili che sempre sfuggono al nostro sguardo. E tuttavia in questi microscopici componimenti, Basho e quanti verranno dopo di lui riescono a cogliere il respiro di questo mondo, e proiettarlo in una dimensione senza tempo (…); così nel tuffo della rana che muove l’acqua del lago antico, sentiamo il suono di un istante che illumina e fa da contrappunto al silenzio dei secoli”.
Antico stagno – * * * Poter vedere * * * A sera l’eco
A terra stilla * * * Lampo nel cielo
Yosa Buson: pittore e poeta
Yosa Buson, nacque a Kemo nel 1715 da una famiglia di agricoltori; rimasto orfano di entrambi i genitori, ventenne si trasferì a Edo per dedicarsi alla pittura e studiare poesia alla scuola di Hayano, allievo di discepoli di Basho.
Durante la sua vita e per tutto il secolo successivo fu noto ed apprezzato soprattutto come pittore, finché nel 1899 Shiki pubblicò un’opera critica sulla sua poesia “Haijin Buson”.
La sua opera è contenuta in numerose antologie. Si spense a Kyoto nel 1783.
Scrive Elena Dal Pra (in “Haiku – Il fiore della poesia giapponese da Basho all’Ottocento”, cit.): “La sua attività (…) di pittore si riflette nei suoi versi, sempre di smagliante impatto visivo e, rispetto a quelli di Basho, di minore profondità lirica. La sua è una poesia dell’occhio, sensuale e immediata, diversa da quella evocativa del suo illustre predecessore. E in queste qualità del suo stile si riversa non solo la sua acuta sensibilità per l’immagine ma anche una natura più concreta , lontana dalla fede religiosa nella poesia e dalla tensione ascetica che avevano segnato la vita di Basho. (…) Buson sfugge decisamente la superficialità dei suoi contemporanei, i cui versi si riducevano spesso ad acrobazie erudite, a motti di spirito o a giochi di parole, e traspone sulla carta ciò che vede con vivida grazia”.
Ancor più solo * * * Sento la neve * * * Ieri con oggi
Come nel sogno
La pioggia cade
Kobayashi Issa: cantore della quotidianità
Kobayashi Issa nacque nel 1763 a Kashiwabara e vi morì nel 1827 dopo una vita di grandi sventure familiari. Figlio di agricoltori, rimase orfano di madre a due anni e subì vessazioni dalla matrigna finché a tredici anni suo padre lo mandò a Edo alla scuola di poesia di Chikua.
Sull’esempio di Basho dal 1791 iniziò una serie di viaggi i cui diari gli valsero fama crescente nel mondo letterario, ma continuò a vivere in povertà, sostenuto da benefattori.
Nel 1810 tornò definitivamente a Kashiwabara, dove sposò una giovane da cui ebbe quattro figli, ma morirono tutti in tenera età. Rimase anche vedovo e si risposò ma la moglie presto lo abbandonò. La terza moglie gli sopravvive, partorendo una bambina pochi mesi dopo la morte improvvisa del poeta.
Povero e amico dei poveri, il suo lirismo si ispirò alle tristi esperienze di vita, ma ebbe straordinarie capacità di trascenderne e giungere ad una estrema limpidezza espressiva che caratterizza il suo stile: una voce che canta cose dolci e tristi della quotidianità, della natura, dei gesti comuni. Fu, nel panorama letterario del suo tempo, un’eccezione. unico a scrivere della realtà contadina così com’era.
Rimane ancora il poeta cantore del destino e dell’abbandono, inimitabile e privo di maestri e discepoli, e segnò il punto più alto della poetica kaiku classica che dopo di lui perse di originalità ed entrò in crisi fino all’avvento di Shiki sul finire dell’Ottocento.
Guarda l’uccello
* * *
Masaoka Shiki: il rinnovatore
Masaoka Shiki nacque nel 1867 a Matsuyama e vi morì nel 1902 a soli trentacinque anni per tisi (ammalatosi nel 1888, assunse lo pseudonimo di Shiki dal nome di un uccello che, secondo antiche leggende cinesi, canta fino a sputare sangue). Di famiglia colta, alla morte del padre, fu il nonno che lo avvicinò ai classici cinesi.
Lasciò l’università senza laurearsi nel 1892 e cominciò a collaborare con il quotidiano “Nihon”, da cui con una serie di articoli che fecero scalpore attaccò le condizioni in cui versava l’haiku, definendole “vomitevoli”. Seguì un suo saggio clamoroso “Basho Zatsudan” (Chiacchiere con Basho) criticandone alcuni aspetti dello stile che i suoi epigoni avevano cristallizzato, mentre la poesia doveva esprimere ansia di rinnovamento e adeguarsi ai tempi.
In un nuovo saggio del 1896 “Haijin Buson” propose questi come modello alternativo in quanto meno ripiegato su se stesso e più attento alla vita reale nella sua crescente complessità. Fondò nel 1899 la rivista “Hototogistu” raccogliendovi i fautori del rinnovamento fondata sullo “shasei” cioè sul ritratto della vita. Le sue composizioni ed i suoi saggi sono stati un fondamentale retaggio per gli sviluppi della poesia giapponese del ’900, aprendo anche la strada al verso libero.
Irene Barocci (in “Cento haiku”, cit.) rileva sull’introspezione che da Shiki in poi caratterizza la poetica haiku: “Nei suoi haiku è possibile individuare ed enucleare una componenti ignota ai classici: l’astrattezza del linguaggio, un rarefarsi delle sensazioni o immagini che facevano direttamente appello alla vista o ad altro organi di senso, verso una sfera più intellettuale, interrogante”. (*)
Lascio che cresca
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(*) Si riportano a pagina seguente – a titolo esemplificativo della modernizzazione raggiunta – due haiku di uno dei suoi seguaci: Kaneko Tota (1919):
Ditta licenza
vomita nel canale
nubi d’autunno
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Accesa lite
e sceso per strada in
moto mi muto
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FLASH STORICO-LETTERARIO SUL GIAPPONE
a) cronologia storica
b) cronologia letteraria
Data di creazione: 04/06/2012 @ 18:24 | Sostieni il Circolo
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